MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


28.5.06

We ain't never defeated

Il miglior remix a memoria d'uomo. Nonché una bellissima canzone.

Beth Orton: Daybreaker (Four Tet Remix)

We lay on our backs in the grass

Silently watching the rain clouds move by far too fast
You said it was a night where anything could happen
But nothing was gonna last
And we're doing fine now yeah we do
We don't feel sad or bad or blue and you know
We ain't never defeated
Not broken inside all that is fine
Yeah all that is fine

We, we burn our boats each new year
Silently watching the flames and the old life disappear
We're burning new sunrise into yesterday's skies
An ashen fingerprint melts into the sea
And we're doing fine now yeah we do
We don't feel sad or bad or blue and you know
We ain't never defeated
Not broken inside all that is fine
Yeah all that is fine

And we're doing fine now yeah we do
We don't feel sad or bad or blue and you know
We ain't never defeated
Not broken inside all that is fine
Yeah all that is fine

27.5.06

Ascolti della settimana (21-28 Maggio)

della settimana:
Neurosis: Souls at Zero [Virus, 1992]
8/10 (R)
Ho da poco iniziato a esplorare la vasta discografia dei Neurosis, di cui fino a qualche mese fa avevo ascoltato solo l'epocale "Through Silver in Blood". Nella fretta di trangugiare quanti più dischi possibile, però, avevo sentito "Souls at Zero" solo di sfuggita. Riascoltandolo intensivamente questa settimana, mi son reso conto che merita assai di più di qualche ascolto frettoloso. Se in "Through Silver in Blood" parlare di "progressive" può sembrare una forzatura, di certo non lo è per "Souls at Zero", in cui le chitarre dei King Crimson sono un riferimento evidente, e gli arrangiamenti comprendono spesso strumenti classici, usati impeccabilmente come inserti, "punte di colore", piuttosto che come fondo costante e stucchevole. Gli accenni industriali sono quasi del tutto assente, mentre predomina un certo spirito "apocalittico" non lontano dagli ultimi Swans. Il disco è però ben lontano dall'essere solo un "banco di prova" per i dischi successivi, ma è anzi un lavoro perfettamente maturo, ben strutturato ed emozionante, che già indica la strada per i vari prosecutori, The Ocean su tutti.

della settimana:
ProjeKct Four: West Coast Live [Pony Canion, 1999]
7,5/10
Il ProjeKct Four è uno dei quattro "FraKctals" in cui si suddivisero i King Crimson ai tempi del "double trio" Fripp-Belew, Levin-Gunn, Mastellotto-Bruford per alcune date live. Non credo che chi andasse a sentire questo o quel ProjeKct suonare avesse idea di cosa avrebbe dovuto aspettarsi: erano i tempi successivi a Thrak e i Crimson avevano dimostrato ancora una volta di essere un "dinosauro" incredibilmente maturo e giovane al contempo, ma da qui ad aspettarsi roba del genere ce ne passa. Roba di che genere? Essenzialmente, improvvisazioni collettive ai confini tra trance, free-jazz, drum'n'bass, ambient, industrial e math-rock. Ovviamente col "solito" Crimson Sound aggiornato non tanto all'oggi quanto al domani. Dei quattro dischi che compongono il box "The ProjeKcts", questo è quello che più mi ha colpito, sebbene anche il quarto sia piuttosto simile. La formazione prevede Fripp alla chitarra, Trey Gunn alla warr guitar, Tony Levin al basso e allo stick e Pat Mastellotto ai V-drums. I pezzi, per quanto prevalentemente improvvisati, sembrano partire da un'ossatura di fondo: come conseguenza il disco suona piuttosto strutturato senza perdere l'impatto "live". Non siamo ai livelli dell'eccelso "Heaven and Earth" del ProjeKct X, ma di certo il disco è degno di stare accanto a quelli della formazione ufficiale ed è nettamente superiore ai suoi lavori più modesti. Difficile individuare dei punti di riferimento, degli appigli per decifrare questo magma sonoro: i brani nascono mentre vengono suonati e proseguono indefinitamente fin tanto che il gioco regge. Sembra davvero di avere a che fare con una band di alieni, la cui musica copre uno spettro larghissimo ed è tenuta assieme solo dal solidissimo filo della disciplina del Re Cremisi.

Altri ascolti:

Miocene: A Perfect Life with a View of the Swamp [Corporate Risk, 2005] 7/10
Può un disco assolutamente derivativo, e non all'altezza delle sue fonti d'ispirazione, risultare davvero interessante? Quando i "clonati" sono artisti così distanti come possono esserlo Tool, Squarepusher e Antipop Consortium, direi proprio di sì. Ne consegue che questo disco degli inglesi Miocene, peraltro già scioltisi, pur non essendo affatto un capolavoro sia decisamente un lavoro intrigante. Prendete i mantra di Maynard James Keenan, il basso magmatico di Justin Chancellor, i riff granitici di Adam Jones e il drumming tribale di Danny Carey e catapultateli nel mezzo di una jungla drum'n'bass degna dell'Aphex Twin più schizoide. Aggiungeteci qualche numero di hip-hop alternativo, con deliri ritmici in tempi composti, soundscape dimessi e qualche trovata ad effetto non sempre azzeccatissima. Il risultato è altalenante come qualità, nel complesso un po' prolisso, ma dove l'alchimia mostra tutte le sue potenzialità ("Autopia", "The Fall", "Sympathy for Gordon Comstock" e la suite "i) Youth ii) Zenith iii) Harvest iv) Dissolution") c'è davvero da divertirsi. Forse stuferanno presto, in fondo tolta appunto la suite nessuna traccia è davvero memorabile. Ma per intanto è un tale spasso ascoltarli!

Eels: Electro-Shock Blues [DreamWorks, 1998] 8/10
Delle Anguille di Mr. E avevo ascoltato solo l'ultimo "Blinking Lights...", che mi era sembrato piuttosto lezioso e prolisso. E' bastato che un send azzeccato mi prendesse alla sprovvista, e mi sono ritrovato costretto a procurarmi questo bellissimo "Electro-Shock Blues". Questo disco mi procura sensazioni simili a quelle che provo ascoltando Beck o l'ultimo Modest Mouse: il piacere di ascoltare qualcosa al contempo di semplice, diretto e orecchiabile, ma anche assolutamente eclettico e sorprendente. Non sai mai cosa aspettarti, e ogni ritmo, ogni strumento che entra a cambiare le carte in tavola è puro divertimento. Non che l'album sia solo questo, anzi è soprattutto una collezione di canzoni belle come poche, emozionanti, sospese tra malinconia e spensieratezza proprio come adoro. Non me l'aspettavo. Approfondirò.

Burst: Origo [Relapse, 2005] 6,5/10
I Burst sono una band svedese che si muove come ormai moltissimi nei solchi individuati dai Neurosis. La peculiarità della loro musica è quella di risultare più compatta, accessibile
e riconducibile alla forma-canzone rispetto allo standard del genere. L'incorporazione di alcuni elementi del progressive "classico", nelle melodie e negli arrangiamenti, e dell'impeto tipico invece del metalcore più tradizionale contribuiscono a rendere "Origo" un disco quasi pop. Nulla di stupefacente in effetti, ma pur sempre un ascolto piacevole per chi ama il genere.

Minsk: Out of a Center Which Is neither Dead nor Alive [At a Loss Recordings, 2005] 8/10
Mi ci è voluto un po' per farmi un'idea effettiva su questo disco, e a dire il vero ancora non l'ho inquadrato del tutto, ma la sensazione è di avere di fronte un capolavoro all'altezza di quelli di Isis e Cult of Luna. L'influenza dei primi è evidente, tant'è che all'inizio si ha la sensazione di ritrovarsi di fronte a un modesto gruppo-fotocopia. I suoni, però, sono parecchio diversi: molto più sludge, profondissimi, sembra quasi di sentire un disco degli Isis suonato dai Pelican. In effetti, le impeccabili sovrapposizioni di chitarre ricordano proprio questi ultimi, anche se questi Minsk sembrano esasperarne ulteriormente la componente post-rock. E' davvero sorprendente come un album possa suonare così massiccio e titanico e al contempo limpido e senza sbavature. Non e' un disco facilissimo, l'ho trovato un pelo più ostico di tanti altri nel genere, ma la lucidità e la maestria con cui è scelto ogni effetto di chitarra, ogni lento cambio di tempo, lo rendono senza dubbio meritevole di essere ascoltato e riascoltato per essere pienamente assimilato.

ProjeKct One: Live at the Jazz Café [Discipline Global Mobile, 1999] 6,5/10 (R)
ProjeKct Two: Live Groove [Pony Canyon, 1999] 6/10 (R)
ProjeKct Three: Masque [Pony Canyon, 1999] 7/10
Set Fire to Flames: Signs Reign Rebuilder [Constellation, 2001] 6/10
Neurosis: The Eye of Every Storm [Neurot, 2004] 6,5/10
Ahleuchatistas: What You Will [Cuneiform Records, 2006] 8/10 (R)
Red Sparowes: At the Soundless Dawn [Neurot, 2005] 8/10 (R)
Tool: 10000 Days [Volcano, 2006] 8/10 (R)
King Crimson: Discipline [EG, 1981] 7/10 (R)
King Crimson: Beat [EG, 1982] 7,5/10 (R)
Talking Heads: Remain in Light [Sire, 1980] 7,5/10 (R)

22.5.06

Ascolti della settimana (15-21 maggio)

della settimana:
Circle Take the Square: As the Roots Undo [Robotic Empire, 2004]
8/10
Più esploro l'universo rock, più mi convinco che, dopo un certo tempo, ogni genere inizi a mostrare derive "prog". "As the Roots Undo" sembra essere l'ennesima conferma della mia teoria. La musica è profondamente radicata nell'hardcore punk, con tutti i crismi di questo genere che solitamente odio, dalla batteria concitata cassa-rullante-cassa-rullante allo scream ai momenti di puro marasma sonoro. Ma se le radici dei Circle Take the Square sono nell'hardcore, è verso post-rock dei Godspeed You Black Emperor! e il post-metal di scuola Neurosis che si protendono i suoi rami, arrivando qua e là a sfiorare pure i territori dei Dillinger Escape Plan. I brani sono autentiche suite costruite secondo lo schema dei costanti crescendo e dell'alternanza tra momenti di calma che man mano si fa più tesa e assalti impetuosi di pura violenza hardcore. Un disco in realtà difficile da descrivere, sulla carta non molto differente da altre proposte, ma all'atto pratico assolutamente unico, esaltante e coinvolgente.

della settimana:
Turing Machine: Zwei [French Kiss, 2004]
8,5/10
Il miglior album math-rock che abbia mai ascoltato è il parto di una band dal nome a dir poco programmatico. Le lunghe cavalcate dei Turing Machine, trio collegato a Doldrums e Pitchblende, sembrano nascere nel punto d'incontro tra Neu! e Don Caballero, e in questo secondo LP prendono un piglio ancora più ermetico e spaziale che nell'esordio, approdando dalle parti dei Guapo. Tra chitarre lancinanti e intrecci ritmici tanto cervellotici quanto immediati e groovy (qualche traccia si potrebbe pure ballare), i deliri siderali noise-kraut dei Turing Machine fondono due mondi musicali che si rivelano ancora più vicini di quanto già non si potesse sospettare, realizzando un lavoro che in quanto a classe, maturità e godibilità non ha davvero niente da invidiare ai loro numi tutelari.

Altri Ascolti:

Daturah: [self-titled EP] [Graveface Records, 2005] 7/10
Il filone "emotivo" del post-rock è ormai un vero e proprio genere, con i suoi cardini, i suoi stilemi e i suoi cliché. Si potrebbe probabilmente costruire un programmino che sforni brani in questo stile con discreti risultati. Molti gruppi tendono ad assomigliarsi e i tedeschi Daturah non sono da meno.
La loro musica sta a metà strada tra Explosions in the Sky e Pelican, ricorda i Caspian e i Red Sparowes: un po' più sporca dei primi e un po' meno occhieggiante al metal che i secondi. Niente di sconcertante nelle pretese, dunque, ma senza dubbio ben suonata, ben prodotta e con la caratteristica più importante in questo genere: la capacità di andare dritta al cuore. Brandelli di comunicazioni via ricetrasmittente (devono essersi sentiti per bene i GYBE!), arpeggi lenti e spaziosi, con un basso rovente ad aprire la scena a muri di chitarre sludge che si inseriscono all'apice della tensione. Sì, niente di nuovo sotto il sole, ma la sua scena la fa lo stesso.

Doctor Nerve: Every Screaming Ear [Cuneiform, 1997] 9/10 (R)
Dei Doctor Nerve, Scaruffi non parla. E, dato che non ne parla lui, non ne parla nessuno. Anzi, non li conosce proprio nessuno, o quasi. E invece un po' di fama la meriterebbero, perché "Every Screaming Ear" è uno dei più grandi dischi di musica totale di sempre. Inutile elencare le tracce di generi che ci si trovano dentro, davvero difficile trovare qualcosa che ne resti fuori (la house, l'hip-hop, la soul music, il metal estremo). Captain Beefheart e Zappa sono gli indiscussi ispiratori di questo sensazionale guazzabuglio, in cui trovano spazio fiati, deliri chitarristici, pezzi live e brani composti e eseguiti da un programma creato dal leader del gruppo. Un disco immancabile, che senza dubbio continuerà a essere sottovalutato e misconosciuto in futuro almeno finché il prossimo Scaruffi di turno si degnerà di incensarlo - per una volta - a dovere. Cosa che probabilmente mai accadrà, perché questo disco non è innovativo, non è influente, non interpreta lo zeitgeist (anzi, è fuori tempo massimo di almeno vent'anni) e non è precursore di nulla, è solo dannatamente, genialmente, bello.

Rites of Spring: End on End [Dischord, 1991] 4/10
Io questa musica non la capisco. Una canzone ("All There Is") mi piace tantissimo, altre tre o quattro delle più pop, specialmente verso la fine, le ascolto con piacere. Il resto viaggia tra l'indifferenza totale e il fastidio fisico. "Merda hardcore" è la descrizione più sentita e concisa di una buona metà del disco, con quella batteria del cavolo suonata da cani e registrata peggio, sempre sullo stesso ritmo tumpatumpatumpa, con questi riff che puzzano di punk lontano kilometri. Non mi si venga a dire che è un disco epocale, emotional hardcore di qui e di là, perché lo so e perché se non scrivessi quello che penso questo commento non avrebbe senso. Le emozioni, salvo le cinque-sei tracce di cui sopra, non ce le sento. Non ci sento niente di particolare davvero, nella forma e nella sostanza. E un po' me ne rammarico pure, perché spesso mi capita di detestare un disco, o di capire perché ad altri piace tanto ma di non amarlo altrettanto per legittime questioni di gusti. Ma molto raramente mi capita non non trovare davvero nulla di particolare in un disco osannatissimo, e quando mi capita è sempre un po' una mezza sconfitta personale.

Sepultura: Roots [Roadrunner, 1996] 7,5/10
Etno-metal? Mica troppo. A parte qualche brano, le contaminazioni con la musica amazzonica sono o del tutto assenti o limitate alla facciata. Death metal? Ma dove? A me questo pare nu-metal bello e buono. "Bello e buono" detto di un disco nu-metal non è cosa da poco. Riffoni bassissimi, ritmi che non hanno nulla né del thrash-metal di provenienza né delle foreste brasiliane (mica tutti i pezzi sono "Ratamahatta"). Una chitarra che più che suonare metal suona come un barrito di elefante iper-effettato, non avevo mai sentito niente di simile se non da Adrian Belew. Che ovviamente qui non c'entra niente. Ho trovato pure l'etichetta "progressive metal" affibbiata a questo disco: niente di più lontano e dall'accezione comune e dallo spirito progressive a me tanto caro, questa è pura frenesia primordiale, istinto e visceralità. E pure un po' di prolissità, perché sto disco non finisce più e qualche pezzo era risparmiabile, ma glie lo si può perdonare data la sua unicità!

Meshuggah: Nothing [Nuclear Blast, 2002] 8/10
Pixies: Surfer Rosa [4AD, 1988] 5/10
Turing Machine: A New Machine for Living [Jade Tree, 2002] 7,5/10
Don Caballero: 2 [Touch & Go, 1995] 7,5/10 (R)
Don Caballero: What Burns Never Returns [Touch & Go, 1998] 8/10 (R)
Doldrums: Desk Trickery [Kranky, 1999] 7/10 (R)
Family: Family Entertainment [See for Miles, 1969] 8/10 (R)
The Birthday Party: Prayers on Fire [Buddha, 1981] 8/10 (R)

21.5.06

Subroutines

Disclaimer: questo è un post-sbatta. Avevo intenzione di scrivere qualcosa del genere da tempo, ma l'altro giorno il nuovo Ratman (ah, leggetelo) mi ha offerto lo spunto giusto. Epifania, illuminazione, o forse semplicemente andare a premere il tasto dolente, a infilare il coltello nella piaga. Come vi pare, ma non potevo tirarmi indietro. Sarà un parto difficile e probabilmente anche un po' doloroso, e le pare contenute potrebbero facilmente riversarsi anche sul lettore. Chiedo scusa. Anche per il fatto che l'immagine qua sotto è tagliata da cani.

Sono stato, ieri, a una festa per tre compleanni: ventun anni, tutti e tre. Non fosse che nel giro di due mesi la stessa occorrenza capiterà anche a me, questo post potrebbe finire qui.
Ventun anni. "Ah, ventun anni, la giovinezza, la vita spensierata, le cazzate con gli amici..." Sti stracazzi. Ventun anni sono tanti. Venti, più quell'"uno" in più a ricordarti che è proprio vero che non sei più un teenager, che il tempo passa anche dopo la fatidica soglia, che passa anche se non sembra cambiare nulla, e se non lo sai sfruttare sono solo cazzi tuoi.
"Spesso viviamo le nostre storie aspettando solo il colpo di scena". Quanto cavolo è vero? Come poi se non sapessi per esperienza che le novità non piovono dal celo, ma te le devi sognare, studiare, coltivare, cullare, dedicarci anima e corpo per mesi, anni o magari solo cinque minuti. Mica arrivano, se passi il tempo ad attenderle passivamente, facendo intanto le solite cose che fai sempre, se vivi la tua vita da osservatore esterno.

Eh sì, bella la teoria. La pratica, però, è tutto un altro discorso. Il principio è limpido, cristallino, ma deve fare i conti con quelli che sono i fattori contingenti: gli impegni, le pressioni, la pigrizia, le conoscenze, le routine. Già, le routine che arrivano ad occuparti il 90% della vita, e anche di più. Le routine che ti sei imposto per scelta e con grande convinzione (l'università, gli scout) e quelle che all'inizio sembravano tanto fighe, così "nuove", ma che passato un anno han già rotto le balle, son diventate proiezioni di film già visti e rivisti (il sabato sera, i festoni, incontrare gente nuova e gente che non vedevi da anni) che perdono d'impatto a ogni visione. Le routine in cui finisci cercando di sfuggire dalle altre, in cui presto alla sensazione di liberazione subentrano la noia e l'inazione.
Quando feste e nuove amicizie iniziano a stancare di default, perché comunque siano saranno uguali alle altre, magari mischiando un po' qua e un po' là, c'è qualcosa che non va. Ma mica nelle feste e nelle amicizie. Quando a ventun anni uno ha la sensazione che la vita non possa più stupirlo, riservargli soprese, quando uno crede di aver già visto tutto pur sapendo di non aver visto niente, quando uno sente il peso degli anni che passano così, sovraccaricato dalle novità ma senza nessuna Novità con la "N" maiuscola, altroché se c'è qualcosa che non va. Diciamocelo chiaramente: quando uno a ventun anni crede che ormai i "bei tempi" siano passati, che essere adulti voglia dire non avere più nulla da scoprire, non sentire più quel clima di "sempre di più, sempre più in alto", crede di essere arrivato alla vetta ma nel guardarsi intorno non vede che nebbia, quando uno a ventun anni inizia a pensare sia opportuno passare dal verbo "crescere" al verbo "invecchiare", forse non è solo "qualcosa" che non va.
Ma il guaio più grosso è farci l'abitudine, a tutta questa cosa, trasformare anche questa in "routine", abituarsi a sé stessi, e rendersi d'un botto conto che il tempo passa, e delle tue pare, dei tuoi blocchi non glie ne frega assolutamente nulla. C'è un televisore, su in soggiorno. Prima, ce n'era un altro, un enorme catafalco a valvole. Poi i miei genitori ne han preso uno nuovo, un Sony Trinitron, il futuro, me lo ricordo come se fosse ieri. Il mio primo videoregistratore, che cosa nuova e esaltante. Solo che ora, salendo in soggiorno, al posto del "futuro" vedo solo un vecchio catafalco che funziona e non funziona. Il videoregistratore nuovo e esaltante, l'abbiam buttato quattro anni fa, perché non solo non era più tanto nuovo, ma era proprio obsoleto e ripararlo non conveniva nemmeno. Non ci avevo mai fatto caso, a queste cose. Fino a un annetto fa, quello sul mobile del soggiorno era "il televisore nuovo". Poi di colpo ti accorgi che è vecchio, senti frullare per la testa le parole "diec'anni" e inizi a capire cosa vogliano dire. Ti guardi dietro, e ti accorgi che dieci anni fa sembrano ieri, ma non lo sono affatto. Ti rendi conto di tutto quello che ti è passato attorno, di tutto quello a cui sei passato attraverso, alle volte con l'ardore cieco di chi vede in ogni novità "la Novità", alle volte controvoglia, alle volte senza nemmeno accorgertene, alle volte per ripiego, cercando di evitare tutto quello attraverso cui passavano gli altri, ricavandone solo di esserci passato in maniera meno intensa, dall'esterno, da osservatore. Ti giri verso il passato e scopri che è tale, e non tornerà più, appartiene a un altro tempo, e ti domandi, di tutte le cose che ti son successe, di quante sia stato per davvero il protagonista. E non vuoi darti una risposta, perché la risposta fa paura almeno come la domanda.
Su in soggiorno c'è un televisore nuovo che adesso è vecchio. Se tanto mi da' tanto, sono vecchio anch'io.

No, non bisogna arrendersi, bisogna cambiare. Ma cambiare cosa, che questi ultimi due anni sono stati un cambiamento totale eppure non è cambiato assolutamente niente? Sto in un altro posto, vedo più certa gente che altra, se confronto il "quadro" di oggi con quella di due anni fa non ci trovo che una cosa in comune, un personaggio laterale, vistoso ma poco incisivo: io. Io che, porca eva, sono sempre lo stesso. E' inutile che stia ad aspettare il "wind of change", è inutile stare fermo in attesa di un grande sconvolgimento: non è fuori che deve cambiare, quello è già cambiato tutto, è dentro. Ma cosa vuol dire? Non riesco nemmeno a capirlo. Sono certo cambiato molto in ventun anni, ma mai volontariamente. Lo chiamavo "crescere", era qualcosa che succedeva e io non dovevo preoccuparmi più di tanto. Stavo lì, mi muovevo un po' a caso a seconda degli sghiribizzi del momento e, bona, crescevo. Poi mi sono accorto che la direzione in cui stavo andando non mi piaceva più di tanto, e ho pensato che bastasse cambiare posto per cambiare direzione. Non mi ero reso conto di avere in mano una fottuta bussola, che puoi andare dove ti pare ma tanto punterà sempre dalla stessa parte. Forse dovrei smettere di seguire la bussola, andare fuori rotta, spezzare la quotidianità, ma questo va completamente contro a quello che credo di essere. Non è da me buttarmi a capofitto nelle cose prima di essermi fatto un'idea di cosa sono, non sono il tipo che fa scommesse e men che meno su sé stesso.

[edit: in realtà da questo punto in poi l'argomento diventa un altro. o forse no]

Forse la cosa più semplice da fare è chiedersi: "cosa vorrei?". E allora, tra i mille "non so", tra le tonnellate di rimpianti - e nemmeno un rimorso - nell'oceano dei buoni propositi tipo "leggere di più", "perdere meno tempo", "farmi meno paranoie", "lanciarmi senza paura" etc. salta fuori "suonare". Vorrei suonare. E' qualche anno che ce l'ho come chiodo fisso, anzi a dire il vero fin da bambino pochi momenti son stati così belli come il confrontarsi con sé stessi per "trovare" a orecchio una musica sullo xilofonino a rotelle, sulla pianola, col flauto. Poi sono arrivati il pianoforte, la chitarra, il flauto traverso: teoria e esercizi, tecnica, regole, un percorso stabilito, nessuna libertà, routine. Non me ne fregava niente, e infatti non ho cavato un ragno dal buco. Non è questo, suonare. Non è riprodurre fedelmente le idee e le emozioni degli altri, magari non sentendole neppure proprie. Suonare, come scrivere, ballare, dipingere, probabilmente come amare, è un modo, quello che sento a mé più consono, di condividere il proprio "centimetro di libertà". Non di perderlo, non di rivelarne i segreti, ma di lasciarci buttare un'occhiata dentro, non solo agli altri, ma anche a sé stessi. E' una sfida, con sé stessi, un modo di conoscersi e di superarsi, di creare qualcosa di veramente proprio.
Credo di sapere cosa voglio fare, cosa voglio suonare. E so due cose: che non è musica facile, e che non posso farlo da solo. Alla prima non si rimedia senza risolvere la seconda. E' inutile, da solo non vado da nessuna parte, ho la sensazione - di nuovo - di essere ormai troppo vecchio per acquisire la tecnica e la confidenza necessari, di aver già perso la mia occasione. Voglio però credere che non sia così, e solo lo sprono di un gruppo che crede in quello che vuole, anche se sembra un traguardo irraggiungibile, può aiutarmi a dimostrare il contrario. Da qui la seconda parte del problema: servono altre persone, altre persone abbastanza melomani da capire cosa intendo fare, abbastanza aperte e matte da accettarlo, abbastanza pazienti da aspettare un bel po' prima di avere dei risultati. Non me ne frega che sian dei mostri della tecnica, ho imparato a diffidarne, quel che conta è soprattutto che ci sia intesa, che sia una bestia a più teste, che possa crearsi, in piccolo, quel clima di continue "Novità" con la maiuscola e scoperte e progressi. Eh, ma sta gente dove cavolo la trovo? Di mio, non ne conosco. Un'altra dura realtà con cui mi son ritrovato a scontrare è che di gente con le tue stesse passioni ce n'è poca, pochissima. E che spesso, quando anche c'è una passione in comune, il modo di intenderla è totalmente diverso. Dicevo, questa gente dovrei cercarla. Parto già poco convinto, perché quello che vedo a Pavia, una delle città più morte d'Italia dal punto di vista musicale e non solo, sono tonnellate di inserzioni per formare cover-band dei soliti cavolo di gruppi. Al più qualcuno che vuol mettere su un gruppo metal, un gruppo indie. Mai nessuno, né dei gruppi che vedo in giro, né dei gruppi che traspaiono da questi annunci, sembra voler fare qualcosa d'altro rispetto a quel che si è sempre sentito, nessuno sembra nemmeno sospettare che possa esistere qualcosa d'altro, al di là dei paletti, delle barriere ridicole fra generi, o anche solo al di là delle culture "alternative" solo mezzo centimetro sopra a quella di MTV.
Vabbé. Io ci proverò. Probabilmente non andrò da nessuna parte, ma vale la pena di tentare. In realtà so che, come mi andava piccola Bergamo, mi va piccola anche Pavia, e pure di più. Ho sempre di più la sensazione che la soluzione migliore non sia questa via di mezzo temporale, "un po' qua e un po' là", ma la via di mezzo geografica: la metropoli, Milano. La città grigia e frentica che ho sempre odiato, ma in cui alla fin fine converge sempre tutto quello a cui tengo. Gli studi: a Pavia di quello di cui probabilmente voglio occuparmi (la logica, i Fondamenti, la filosofia della scienza, i legami della matematica con la mente e la linguistica) non glie ne frega niente a nessuno. La musica, le attività culturali, i posti, tutto. Ma so anche che, finché non risolvo il problema alla base, ovvero i miei blocchi, ogni posto sarà uguale: forse uno sarà un po' meno peggio dell'altro, ma ne vivrò comunque una percentuale insignificante rispetto a quanto potrei. Perché non sono solo i posti quelli che contano, ma le cose che si fanno, le persone con cui si fanno e il modo in cui ci si pone rispetto ad esse.

Di cose ce ne sarebbero ancora da dire, ma incomincio a girare in tondo, quindi tanto vale concludere qua e rimandare la prosecuzione a un'altra volta. Non credo che dopo questo post cambierà alcunché, ma sentivo il bisogno di scriverlo. Chiudo qui, con una canzone, una canzone scout che ho sempre amato e mai messo in pratica:

Buona fortuna a te che scruti la notte e sfidi le ombre buie della tua mente
Che provi a sconfiggere le paure, che trovi il coraggio per andare lontano
Arriva il momento che devi provare, provare a te stesso quello che puoi valere

Avere fortuna, sì, è quello che conta ma
E' niente se manca la forza, la voglia di vincere, di dimostrare
Che niente è impossibile se ci vuoi provare
Niente ti è lontano se ci credi, se è quello che vuoi.

Buona fortuna se hai deciso che è giusto
Provare a giocare anche se c'è da rischiare
In fondo la vita è una sola partita
E comunque la giri solo tu puoi giocarla

Esci allo scoperto, dai una mossa al gioco
Scrivi il tuo copione solo per un poco
Vale la pena sai, anche solo poi
Per poter dire che io c'ho provato

Non hai perso certo tutta la partita
Solo qualche punto ma non è finita
Meglio un punto perso se è per dare un senso alla tua vita

Non cercare sempre la luna nel pozzo
E' grande, grande, grande anche un piccolo passo
Sei la carta vincente, sei tu la fortuna della tua vita.

16.5.06

Ma i fumetti?

Uffa, va a finire che non scrivo mai di fumetti come invece mi ero prefissato di fare. Vabbé, recupero postando in una botta sola due interventi che molti dei miei (pochi, ovviamente in senso manzoniano) lettori avran già trovato sul forum di SBoNK - pace all'anima sua.

Demian #1: Il Ricordo e la Vendetta [Bonelli, Maggio 2006]
Letto anche io ieri in treno. Che dire? Fin dall'inizio mi sono preso benissimo. Una narrazione parallela tra la le ricerche di uno scrittore per ricostruire la presunta morte di un personaggio, e le vicende del personaggio stesso, che palesemente morto non e' affatto. Una serie "chiusa" dove la fine coincide con la completa dipanazione della matassa, l'intersecarsi delle due linee narrative e il ritorno in scena dello "scomparso". Bellobello, ce ne fossero di Bonelliani cosi'.
Eh, ce ne fossero. A pagina cento questo primo numero di Demian si rivela per quello che e' e promette di essere anche la serie: il solito Bonelliano del cazzo, col bel tenebroso dal passato travagliato ma che sotto sotto e' tanto buono e per dare conferma di cio' se ne fa una o piu' a episodio. Cento pagine. Cento pagine e' durato il mio interesse verso una serie che, porco giuda, partiva da dio.
Prendero' anche il prossimo numero, diamogli un'altra possibilita'. Caduta l'illusione di una serie bonelliana anti-bonelliana, speriamo almeno in un decente per quanto trito bonelliano ordinario.

Da Watchmen agli Ultimates: Evoluzione e Rivoluzione del Supergruppo
1986: vent'anni fa. Chernobyl, il Nobel alla Montalcini, la morte di Cary Grant. Watchmen. Un punto di non ritorno per il fumetto superoistico, e non solo per quello. Moore ribalta come un calzino la figura del supereroe: altro che difensore della terra, "Who watches the watchmen?", chi la difenderà dai suoi "difensori", da un branco di psicopatici, depravati, falliti che di sovrumano sembrano avere solo le turbe psichiche? Di "grandi poteri" se ne vedono pochi, e chi ne ha sembra voler fare tutto fuorché assumersi "grandi responsabilità". Sono le non-virtù ad essere alla ribalta: la mediocrità di Nightowl e dello Spettro di Seta, il cinismo reazionario del Comico, l'alienazione dal mondo di Doctor Manhattan, le lucide e deliranti "giustizie" di Rorschach e Ozymandias, l'una schizofrenica e passionale, l'altra fredda e megalomane.
L'opera di Moore va ben oltre lo sconvolgimento del cliché del supereroe, e rimando all'apposito thread per discutere ulteriormente dei suoi numerosi livelli di lettura. Vorrei però soffermarmi sul ruolo di Watchmen nel ridisegnare la letteratura supereroistica, in particolare quella riguardante i gruppi. O meglio, vorrei che vi soffermaste voi, visto che io non ne so sostanzialmente nulla. Non conosco gli sviluppi immediatamente successivi del genere, anzi ho un buco che arriva grossomodo alla fine degli anni '90. Watchmen: 0-0 palla al centro, ma poi? Com'è stata raccolta la sua lezione? Come si è evoluta, come si è diffusa, com'è degradata e degenerate, che impatto ha avuto sulle serie regolari e su quelle "one-shot"?

Ho un buco, dicevo. Un buco di 13 anni. Questo è il lasso di tempo che intercorre tra lo scossone di Watchmen e i primi episodi delle saghe di Warren Ellis "Planetary" e (soprattutto) "The Authority", entrambi datati 1999. Ne è passato di tempo, e si vede. Si vede anche che Watchmen, Ellis, se l'è letto bene, ed è con lo stesso intendo di "ribaltare tutto come un calzino" che parte.
Già in "Planetary" troviamo supereroi atipici, anzi non veri e propri supereroi, ma più che altro "uomini straordinari", personaggi quasi mitologici senza un'origine e con un passato confuso, impegnati non a salvare il mondo ma a scoprirlo, sondarlo, trovarne i bachi per rimetterlo a posto. Non uno squadrone guidato dal lungimirante filantropo o dal figo di turno, acclamato o demonizzato dalla gente e dai giornali, attaccato immotivatamente da super-nemici che sembra non abbiano nient'altro da fare nella vita se non prendersela con i piccoli perché arrivino i leoni con cui azzuffarsi. No, piuttosto un nucleo operativo iper-segreto, dotato di un'efficiente organizzazione capillare, a conoscenza di dati off-limits per chiunque altro e soprattutto finanziato e guidato da non si sa chi e non si sa perché. Tre i componenti del gruppo: tre personaggi di cui non si sa nulla, se non che l'ultimo arrivato ha quasi cento anni, è nato il primo gennaio del 1900 e non si ricorda alcunché del suo passato e che, tra tutti e tre, sembrano tutto fuorché dei "bravi ragazzi" con la passione del volontariato estremo.

Ma questo non è niente. Un bel gioco narrativo, una scatola in cui infilare tonnellate di citazioni e parodie all'insegna di un ben dosato post-modernismo. La bomba è "The Authority": "Il primo grande supergruppo del Ventunesimo Secolo", scrive Grant Morrison nell'introduzione al primo volume. Ellis riprende le stesse idee di fondo, le porta all'estrema conseguenza, e ne aggiunge un mucchio d'altre. Basta supereroi nati per caso, da un incidente, da un test fallito, largo a una nuova sorta di "Pantheon": ecco a noi Jennifer Sparks, lo "Spirito del Ventesimo Secolo", l'anticorpo del pianeta che nasce (pure lei) il primo gennaio 1900 e muore il 31 dicembre 1999. Ed ecco "The Doctor", lo Sciamano, il mago del Cambiamento, erede di una continuità lunga come la storia dell'uomo (un certo Alan Moore deve averne tenuto conto, nel pensare a "Promethea"), ecco Jack Hawksmoor, il "Dio delle Città", in connessione neurale con ogni metropoli della terra, Angela Spica, "Engineer", il Costruttore, la scienziata che ha barattato il suo sangue con nove pinte di nanorobot. Apollo, il "Dio del Sole", e Midnighter, la letale coppia gay di soldati modificati chirurgicamente in macchine da guerra, e Swift, la tibetana mezza donna e mezza falco (il personaggio più debole e meno sviluppato della serie, a dire il vero). Un bel gruppo di superbastardi, con una tonnellata e mezza di vizi e tenuti assieme solo da quel briciolo di ostinatezza e megalomania necessari per prendere a pugni in faccia chichessia a patto di cambiare il mondo in un posto più decente. "Non siamo un supergruppo da fumetto che ogni mese combatte inutili battaglie contro inutili supercriminali per preservare lo status quo" scrive Mark Millar per bocca di Jack Hawksmoor, rivolto a Bill Clinton. "Attento a dove mette i piedi, signor hawksmoor", risponde questo. "Francamente potremmo dirle altrettanto. Signor presidente". Non esattamente quello a cui uno è abituato a sentir dire dal leader del supergruppo più popolare del pianeta. Che, per dovere di cronaca, due tavole dopo va a spezzare le ossa agli equivalenti degli Avengers, tanto stronzi quanto filo-americani.
Ellis e Hitch, e ancora di più Millar e Quitely, si prefiggono e raggiungono l'obiettivo di aggiornare il fumetto superoistico all'era della globalizzazione e dei no-global, della dittatura mediatica e della "Pax Americana". Un fumetto "cool" fino all'eccesso, fatto di scene "widescreen", tecnologie fantascientifiche, sì, ma rispetto a oggi e non a trent'anni fa, in cui i nemici non sono supercattivi in calzamaglia ma terroristi internazionali (due anni prima dell'11 settembre), vampiri alieni italo-vichinghi provenienti da un'Inghilterra alternativa in pieno inverno post-atomico, un super-organismo alieno assimilabile a Dio che viene a riprender possesso del suo pianeta, uno scienziato segreto americano animato dagli stessi intenti, deciso a usare gli stessi mezzi ma assolutamente intenzionato a sbarazzarsi della "concorrenza" constituita dall'Authority, poi addirittura il Pianeta stesso.
Un supergruppo scomodo e tutt'altro che diplomatico, cinico e determinatissimo.

E' questo il punto di partenza, la pietra d'angolo a cui la Marvel reagirà con "The Ultimates", per mano dello stesso Millar. Se Authority era esplosivo nelle idee, rivoluzionario nei concetti, ma povero negli intrecci, la rilettura degli Avengers che Millar imbastisce è di una complessità e profondità stupefacenti. Dove Ellis era provocatorio verso la società e l'estabilishement, Millar è polemico. Cinico. Realistico fino a farti credere che le sue caricature siano vere (non lo sono?). Nel mondo degli Ultimates non esiste il caso, non esiste la fatalità che crea qualcosa di nuovo, niente sfugge al controllo e se qualcosa lo fa va soppresso, tenuto nascosto e giustiziato. Tutto si spiega: ogni componente del gruppo, in un modo o nell'altro, deve i suoi poteri alla ricerca sul Siero del Supersoldato che sessant'anni prima aveva trasformato Steve Rogers in Capitan America, il super-efficiente e super-astuto e super-obbediente paladino della nazione. Millar taglia col bisturi la psicologia di ogni personaggio, disseziona la rete di relazioni che li tiene assieme, tira al massimo i fili che li legano alla società, li spezza, li ricuce. La domanda non è "chi sono i buoni e chi sono i cattivi?", né "esistono i buoni e i cattivi?", ma quale dei cattivi sia il più affidabile, chi la racconti più verosimile e chi giochi meno sporco. Millar fa finta di parlare di supereroi, finge anche di parlare di persone: in realtà parla di te, delle tue paranoie e delle tue seghe mentali, e della società, senza risparmiare colpi né per te né per lei. Nell'anno 2006, vent'anni dopo Watchmen, "The Ultimates" dimostra che Moore aveva solo iniziato una strada, e le potenzialità offerte dal genere, un genere in cui è difficile non scadere nella banalità, nell'autocitazionismo da nerd e nel manierismo, sono ancora tutte da sviluppare. Almeno se, conclusi i suoi cicli, il buon Millar abbia lasciato ancora qualcosa.

13.5.06

Ascolti della settimana (8-14 Maggio)

Non è proprio una settimana, ma tant'è. Son stato a Pavia lo scorso week-end, dunque non ho potuto rifornirmi di nuova roba. Sto provvedendo massicciamente ora, ma in ogni caso i giorni passati sono stati caratterizzati prevalentemente da riascolti, complice l'arrivo di una valanga di cd ordinati su cdconnection.

della settimana:
At the Drive-In: Relationship of Command [Virgin, 2000]
8/10
Minchia! Che altro dire? Arrivo agli At the Drive-In seguendo un cammino a ritroso dai Mars Volta, e quello che ho trovato qui è tanto vicino quanto fondamentali sono le distanze tra le due proposte artistiche. Dove i Mars Volta sono eclettici, stratificati, iper-prodotti, a tratti pure prolissi e autoindulgenti a ben vedere, "Relationship of Command" è teso, compatto, diretto, scarno. Resta la complessità, lo stile melodico-compositivo è veramente molto vicino, per non parlare di quello spirito che se non "prog" non so come chiamare.
Post-hardcore? Forse, ma dell'hardcore resta solo la forza d'impatto, la velocità, il suono tagliente e un po' di scream nel cantato. Questo disco è una bomba e Cedric Bixler e Omar Rodriguez avrebbero potuto tranquillamente fermarsi qui. Hanno invece scelto di dividere il gruppo e fondare i progressivissimi Mars Volta, e senza dubbio non ce ne si può lamentare. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.
Sacrifice on railroad tracks / Sacrifice on railroad tracks / Freight train coming / Freight freight train coming!

della settimana:
Isis: Panopticon [Ipecac, 2004]
9/10 (R)
Uno dei capolavori del nuovo millennio è quella che reputo la vetta per ora raggiunta dalla strepitosa carriera degli Isis. C'è chi non vuole si parli di post-metal, ma come altro si potrebbe chiamarlo? Le analogie con le gelide atmosfere degli Slint da una parte e le inebrianti progressioni dei GYBE! dall'altra sono troppo evidenti: se quelle son post-rock, gli Isis - ma in generale i Neurosis e i loro successori - sono post-metal. Prendetevela con Simon Reynolds (anche a nome mio) se non vi vabene.
Ma queste sono pippe da musicofilo frustrato. Il punto è un altro, ovvero che gli Isis sono un gruppo della madonna e questo è un discone immenso. La musica degli Isis è come una bombola ad alta pressione, un concentrato di angoscia esistenziale e rabbia, di cui Aaron Turner e soci aprono la valvola facendo fuoriuscire il gas, che si espande, si rarefa e si congela. Sembra davvero questa la formula magica con è costruito "Panopticon": emozioni cristallizzate nel ghiaccio,
oceani in cui "dilatazione" fa rima con "densità", tutta la solitudine del mondo e dell'umanità che appare assieme evidente e distante come in una foto scattata da un aereo...

Altri ascolti:

Rage Against the Machine: [Self-Titled] [Epic, 1992] 7,5/10 (R)
Quanti anni erano che non risentivo sto disco?! E chissà perché, poi. Boh, ne avevo un ricordo così e così, e invece è proprio bello. Bello e nuovo. Per allora, ma anche per oggi, perché tutto sommato nonostante le decine (se non centinaia) di proseliti non mi risulta l'alchimia rap-rock dei RATM abbia avuto degni epigoni.
Zack De La Rocha inventa uno stile, a metà tra rap e scream, che avrebbe potuto segnare un genere e invece tutto sommato andrà perso. Gli stessi chitarrismi di Tom Morello, con un piede nei Led Zeppelin e uno nei Jane's Addiction, sono hard rock bello e buono, altro che nu-metal. Hard rock, sì, ma con un twist decisivo: Tom Morello sembra arrivare con l'intento di insegnare ai patiti del "rock'n'roll" duro e puro che la chitarra è solo la metà scarsa di uno strumento, e può essere l'altra metà, l'effettistica, a svolgere la parte determinante. Un suono, un magheggio diverso per ogni assolo: può sembrare esibizionismo e un po' lo è, a modo suo è "tecnica" anche quella, ma che goduria ragazzi! Che dire poi di una sezione ritmica di questo calibro? Cosa non sono "Bullet in the Head" e "Take the Power Back"?
L'unica "colpa" che mi sento di imputare a questo disco, se di colpa si può parlare, è di essere dannatamente semplice e diretto. Ok, è vero, è un suo punto di forza. Ma più lo riascolto e più sono convinto che da queste idee, da questo suono, si possano tirar fuori pezzi più complessi e ugualmente incisivi, se non di più. Mi sto dando da fare per trovare il gruppo al crocevia tra RATM e King Crimson... (Sì, sono malato).

Sleepytime Gorilla Museum: Grand Opening and Closing [Seeland, 2001] 8/10 (R)
Dove avant-prog, industrial metal e soprattutto schizofrenia pura e semplice si incontrano, lì si trovano gli angoscianti Sleepytime Gorilla Museum, una specie di mostro di Frankenstein creato con pezzi di organi di Idiot Flesh e Faun Fables. La musica può ricordare certamente Idiot Flesh, Art Bears, Naked City, Mr. Bungle, Comus, ma essenzialmente è un ibrido mutante che somiglia a tante cose come a nessuna. Passaggi acustici, cacofonie vocali, incastri dissonanti e in controtempo e soprattutto un'atmosfera da manicomio, di quelle che ti fan venire gli incubi la notte. Masochismo? No, ascoltarlo è uno spasso: star lì a contemplare e gustarsi la lucida (ma mica troppo) efferatezza degli Sleepytime Gorilla Museum è una sensazione unica e particolare, intrigante e pure piacevole, avendo l'accortezza di non ascoltarlo da soli in un vicolo mal illuminato!

Skeleton Crew: Learn to Talk/The Country of Blinds [Reissue] [ReR, 2006] 9/10 (R)
Finalmente ho tra le mani l'attesa doppia ristampa Raccomended Records di quest'accoppiata di capolavori. Gli Skeleton Crew, al secolo Fred Frith e Tom Cora (più Zeena Parkins in "The Country of Blinds) sono una formazione decisamente atipica, in bilico tra no-wave (vedi il commento ai Massacre), new wave (per i suoni), folk-rock (per le melodie vocali e i ritmi) e avant-prog (gli intrecci, gli incastri). Quelle che compongono il disco sono forse le canzoni più "canzoni" mai composte da Frith (escludendo il pur ottimo "Cheap at Half the Price"), ma il gusto per gli spigoli, i tagli obliqui e l'eclettismo è più che mai accentuato. Tra gli sferragliamenti noise-jazz di Frith, il violoncello strapazzato di Tom Cora, l'arpa ingrippata della Parkins, gli spezzoni presi dalla radio, un bel po' di verve antiamericana e l'ironica ripresa di schemi vocali della tradizione popolare, quella che emerge su tutte è l'incredibile poliedricità di un artista col tocco di Re Mida, che trasforma in oro qualsiasi cosa tocchi.

Massacre: Killing Time [Celluloid, 1982] 10/10 (R)
Che bisogno c'è di "No New York", quando c'è "Killing Time"? La mia risposta, polemica, è: nessuno. Non sarà "seminal", non sarà "groundbreaking", ma è schifosamente perfetto. Fred Frith, Bill Laswell e Fred Maher ridisegnano un genere facendo terra bruciata di tutto quel che è stato prima. La dissonanza, il graffiante grattuggiamento, lo stridore dello sferragliare: caos primigeno di un baby universo in gabbia (*), libero di vorticare, ribollire, collassare sotto l'abile direzione di Frith e compari. Dissonanza fatta da chi conosce perfettamente cosa vuol dire il contrario, e sa benissimo come manipolare i propri strumenti, come infrangere le "regole" per ottenere esattamente ciò che vuole. Visceralità? Istinto? Impeto? Niente di più lontano da questo disco, un manifesto cristallino alla razionalità, che mostra la sua vera essenza proprio nelle situazioni-limite, dove si trova a confronto diretto con l'indeterminazione, l'aleatorietà. Dal funk-punk scarnificato delle prime tracce alle dilatazioni quasi shoegazer delle ultime, passando per distorsioni post-industriali, urla che non sono da nessuna parte ma giureresti di sentire, armonie jazz dissacrate e rinchiuse in un frullatore. Un frullatore rotto, che però funziona meglio di prima.
(*) Questo è Warren Ellis. Il fumettista, non il violinista.

Buried Inside: Chronoclast (Selected Essays on Times Reckoning and Auto-Cannibalism) [Relapse, 2005] 7/10 (R)
Di tutta questa combriccola post-metal, i Buried Inside sono tra i più radicatamente "metalli" e palesemente progressivi. "Chronoclast" è un concept album sul tempo, di cui ogni titolo esamina un particolare aspetto ("Time as Ideology", "Time as Surrogate Religion", "Time as Abjection", e via dicendo). La musica è pesantissima, stratificata, a tratti barocca, ricorda in egual misura i Pelican e gli Opeth, il cantato è uno scream gutturale che ha la stessa carica emotiva di quello degli Isis. Il risultato è un album teso, senza momenti deboli, senza nemmeno troppi picchi ma tutto sommato originale nel panorama, per il suo tentativo di mescolare esplicitamente le strutture del progressive settantiano al magma spirituale della scena più eccitante del momento.

Té: If That Is What Is Being Thought, Liberated Sound Talks The Depth Of [Musical] World [Status Quo Audio, 2006] 6,5/10
La musica dei giapponesi Té sta da qualche parte tra Explosions in the Sky e Terantel, senza una grande originalità, con una produzione decisamente scarsa e qualche pezzo davvero buono che rende l'album tutto sommato degno di essere ascoltato. Tralasciando dunque i tanti pezzi in cui è la noia a prevalere, mi soffermo invece su quelli dove emerge l'emozione e pure qualche sprazzo di originalità, specie nella sezione ritmica. La batteria è al limite dell'hip-hop (a tratti molto dance), cosa che adoro, e il basso è un flusso continuo, un'onda drum'n'bass che si propaga sullo sfondo delle architetture musicali fatte ora da muri di chitarre, ora da sottili fessure che si insinuano nelle pareti. Confido che una prossima uscita possa mettere da parte l'anonimo derivativismo della maggior parte dei pezzi, rivelando e sviluppando maggiormente questa vena contaminativa decisamente interessante.

Ride: Nowhere [Creation, 1990] 10/10 (R)
Atheist: Unquestionable Presence [Metal Blade, 1991] 8,5/10 (R)
The Flying Luttenbachers: Destroy All Music [Skin Graft, 1995] 7,5/10 (R)
Modest Mouse: Good News for People Who Love Bad News [Epic, 2004] 8/10 (R)
Supersilent: 6 [Rune Grammofon, 2003] 10/10 (R)
The Beatles: Magical Mystery Tour [Capitol, 1967] 10/10 (R)
Solefald: In Harmonia Universali [Century Media, 2003] 6,5/10 (R)
Agalloch: The Mantle [The End, 2002] 8/10 (R)
Explosions in the Sky: The Earth Is Not a Cold Dead Place [Temporary Residence, 2003] 8/10 (R)
The Mass: City of Dis [Crucial Blast, 2004] 7/10 (R)
My Latest Novel: Wolves [Cooperative Music/V2, 2006] 8/10 (R)
Bloc Party: Silent Alarm [Deluxe Edition] [Vice, 2005] 8/10 (R)
Jack's Mannequin: Everything's in Transit [Maverick, 2005] 5,5/10
The Sword: Age of Winters [Kemado, 2006] 6/10

This is our prog rock

Il tanto atteso concerto degli A Silver Mount Zion (che ora si fanno chiamare "Thee Silver Mount Zion") è infine giunto. Ore 23:15: dopo tre quarti d'ora dall'orario preventivato, i sette salgono sul palco (nel frattempo, però, il DJ si è dato da fare, mettendo su i Neu! e gli Husker Du, che per l'occasione mi son perfino piaciuti). Sì, sette: due chitarre, due violini, batteria, contrabbasso e violoncello. In realtà il batterista ogni tanto passa alla chitarra acustica, uno dei due chitarristi fa pure da cantante principale, e tutto il gruppo collabora alle parti vocali quando necessario.
Non c'è che dire: live spaccano di brutto. Molto di più che su disco, dal cui ascolto devo dire non ero mai riuscito a togliermi l'idea che fossero sostanzialmente dei Godspeed You Black Emperor! versione lite. A sentirli lì, invece, a mezzo metro dal palco in quel buco che è lo Zero di Azzano, l'effetto è tutto un altro. Tanto per cominciare, se i GYBE! facevano composizioni, pezzi, brani, gli ASMZ fanno canzoni, belle e buone. Canzoni che lasciano ampio spazio alle parti puramente strumentali, canzoni dilatate, lunghe decine di minuti, ma assolutamente centrate sulla voce. Anzi, sulle voci: ora quella straziata del cantante (che non si sa se veniva "dal cuore", era tutta scena, o era sintomo dell'evidente raffreddore), ora quelle di tutto il gruppo, unite e intrecciate in struggenti acappella.
Sorprendentemente, la musica degli ASMZ è in grado non solo di emozionare, trascinare, coinvolgere e di affascinare con la bellezza delle armonizzazioni, ma anche di esaltare per la dinamicità della batteria e sorprendere con ritmi abbondantemente ballabili (peccato che a questi concerti accennare il più lieve segno di cedimento "danzereccio" sia considerato un'onta e un disonore inaccettabili per un vero post-indie-snob). Nel valutare l'impatto live va anche considerata che, alla bellezza della musica, si aggiunge pure quella della violinista, che già avevo avuto modo di apprezzare in foto, ma dal vivo rende assai di più :)

In ogni caso, questa la scaletta:
God Bless Our Dead Marines
Mountains Made Of Steam
Blank Blank Blank [The Reckoning]
Horses In The Sky
Ring Them Bells (Freedom Has Come And Gone) / Teddy Rooselvet's Guns

11.5.06

Tramonti Marziani

Ditemi voi se non sono fighi:









edit: oggesù è la seconda volta in due post che uso l'aggettivo "figo" come elemento centrale di un discorso. Sto degenerando, mi avvicino pericolosamente al ggiovane d'oggi-tipo. Di questo passo potrei anche trovare una ragazza. Uhm, no, mi sa che sto correndo un po' troppo.
ps: ed è anche la seconda volta in tre post che parlo di "trovare una ragazza". Sisì, proprio un ggiovane d'oggi-tipo, sto diventando -.-

Modest Mouse: The World at Large

Sono andato a cercare oggi il testo di questa canzone, ed è figo, mi ci ritrovo molto. Lo appiccico qua, e ci piazzo pure l'mp3 che non fa mai male.

Ice-age heat wave, can't complain.
If the world's at large, why should I remain?
Walked away to another plan.
Gonna find another place, maybe one I can stand.

I move on to another day,
To a whole new town with a whole new way.
Went to the porch to have a thought.
Got to the door and again, I couldn't stop.

You don't know where and you don't know when.
But you still got your words and you got your friends.
Walk along to another day.
Work a little harder, work another way.

Well uh-uh baby I ain't got no plan.
We'll float on maybe would you understand?
Gonna float on maybe would you understand?
Well I'll float on maybe would you understand?

Uh-uh-uh...

The days get shorter and the nights get cold.
I like the autumn but this place is getting old.
I pack up my belongings and I head for the coast.
It might not be a lot but I feel like I'm making the most.

The day's get longer and the nights smell green.
I guess it's not surprising but it's spring and I should leave.
Uh-uh-uh

I like songs about drifters - books about the same.
They both seem to make me feel a little less insane.
Walked on off to another spot.
I still haven't got anywhere that I want.

Did I want love? Did I need to know?
Why does it always feel like I'm caught in an undertow?
Uh-uh-uh...
Uh-uh-uh...

The moths beat themselves to death against the lights.
Adding their breeze to the summer nights.
Outside, water like air was great.
I didn't know what I had that day.

Walk a little farther to another plan.
You said that you did, but you didn't understand.
Uh-uh-uh...

I know that starting over is not what life's all about.
But my thoughts were so loud, I couldn't hear my mouth.
My thoughts were so loud, I couldn't hear my mouth.
My thoughts were so loud.

Modest Mouse: Il Mondo a Piede Libero (*)

Un' ondata di calore dall'era glaciale, non posso lamentarmi.
Se il mondo è a piede libero, perché dovrei rimanere?
Passo a un altro piano:
Troverò un altro posto, magari uno che posso sopportare.

Mi sposto verso un altro giorno,
Una città tutta nuova con un modo di vivere tutto nuovo.
Vado sotto al portichetto per pensarci un po',
Arrivo alla porta e di nuovo non posso fermarmi.

Non sai dove e non sai quando,
Ma hai ancora le tue parole e hai ancora i tuoi amici,
Cammina verso un altro giorno,
Lavora un po' di più, lavora in un altro modo.

E oh-oh baby non ho nessun piano,
Sarà come fluttuare, capisci?
Sì, fluttuare, capisci?
Sarà come fluttuare, capisci?

I giorni si accorciano e le notti diventano fredde,
Mi piace l'autunno, ma 'sto posto sta diventando vecchio.
Faccio su quel che ho e vado verso la costa,
Non sarà molto ma sto facendo del mio meglio.

Il giorno è diventato più lungo, la notte profuma di verde,
Non dev'essere così sorprendente, ma è primavera e devo partire.

Mi piacciono i vagabondi sconclusionati e i libri su di loro,
Entrambi mi fan sentire un po' meno anormale.
Mi sposto da un'altra parte,
Ancora non sono arrivato in nessun posto che mi soddisfi.

Voglio l'amore? Voglio sapere?
Perché mi sembra sempre di esser trasportato da un riflusso?

Le falene vanno a sbattere contro le luci fino alla morte,
Aggiungendo la loro brezza alle notti d'estate.
Fuori, l'acqua come l'aria è grandiosa.
Non so che avessi quel giorno.

E' tempo di andare oltre, verso un altro piano.
Hai detto di sì, ma mica avevi capito.

Ok che ricominciare da capo non è il punto, nella vita,
Ma i miei pensieri erano così forti che non potevo sentire la mia bocca.
Ma i miei pensieri erano così forti che non potevo sentire la mia bocca.
Ma i miei pensieri eranno così forti...


(*) Libera traduzione del sottoscritto, assieme al testo sottostante.

Modest Mouse: The World at Large

10.5.06

Oh, sentite, il titolo mettetelo voi

E che palle con sta storia dei titoli. Uno sente che è il momento buono per buttar giù due cose, che non hanno necessariamente un legame fra loro, e si blocca perché non gli viene in mente un titolo migliore di "Alcune cose", "Considerazioni sparse" e simili. Che palle. Insomma, quello sopra è un non-titolo. Se vi viene un titolo vero, fatemelo sapere.

Dicevo: mi va di scrivere alcune cose. In primis, dirò che sono contento, per non dire euforico, e il motivo mi sorprende. Sono al settimo cielo per l'elezione del Presidente della Repubblica. Quando ho letto la notizia, e i commenti e tutto quanto sugli RSS di repubblica mi è proprio venuto un bel sorriso, non so perché. Sarà una sensazione tipo "ce l'abbiamo fatta", sarà che sotto sotto - già lo dicevo - sono un po' mangiabambini anch'io, ma più che altro è come se quest'elezione fosse il primo vero segnale di vittoria a tutti gli effetti delle elezioni. Abbiamo un nuovo Presidente! E' qualcosa del genere "anno nuovo, vita nuova", ma con "Presidente" al posto di "anno". E poi Napolitano mi sta simpatico, assai più di molti altri diessini. Per un po' mi ero augurato che "parcheggiassero" D'Alema al Quirinale di modo che non potesse fare danno altrove, ma ora sono davvero felice sia andata così.

Poi dovrei raccontare della festa. Non ho una gran voglia però. Per chi non sa nulla, sabato c'è stato un mega-festone in un castello di proprietà del mio collegio, a Lardirago, qua vicino a Pavia. C'è voluto un mese e passa a organizzarlo coi miei compagni d'anno, e nonostante i miseri guadagni, tutto il lavoro a monte (per non parlare di quello dopo, a sbaraccare) ne è davvero valsa la pena. Tutto è andato per il meglio salvo una visitina del Vicequestore e del Sindaco accompagnati da tre volanti, verso le tre di notte. Tre volanti! Manco fossimo Provenzano. Vabbé, in realtà non c'era motivo alcuno (non a prima vista, almeno) per cui avessero da obiettare, ergo la cosa si è risolta in un'oretta di gita in cellulare di tre nostri validi wannabe giurisperiti.
Ecco, l'unica cosa che mi spiace è non aver fatto il DJ: abbiam pagato dei tizi che si portavan dietro tutto il soundsystem e due negroni coi bonghi. I DJ (erano almeno cinque) eran delle pippe clamorose, nel senso che facevo meglio io, ma minchia il soundsystem che avevano. E le luci! Davvero una figata. Alla prossima festa saranno mie, poche storie.

C'è altro? Uhm, sì. Due robine. Il blues deve morire. Oddio, no, così è eccessivo. Deve morire, scomparire dalla faccia della terra, questa tendenza generale per cui tutti gli pseudo-chitarrai hanno un'impostazione blues e non riescono a concepire niente fuori da quella. Tutti che mi danno la merda in fatto di tecnica, ma pieni di paletti assurdi tipo che ci siano note "giuste" e "sbagliate", che il sound di chitarra "giusto" sia uno solo e al più se sei Satriani ti puoi permettere di distorcere un po'. Basta. Meno Stratocaster e un po' più DJ. Anzi, no, meglio ancora: più DJ con la Stratocaster, sempre che non ci suonino blues anonimo.
Infine un'ultima, puntigliosa, considerazione linguistica. Parlavo oggi con uno riguardo al collegio, e mi chiede "ma si possono portare in camera le ragazze?". Vabbé, adesso come adesso per me il problema non si pone, ma il punto è un altro. Il plurale. "Le ragazze". C'è un'intera concezione dell'amore, della vita, dietro quelle due vocali. Per me è "la ragazza", lei, proprio lei, quella persona lì nella sua particolarità. Uno può cambiarne una ogni due settimane, ma è nel plurale o nel singolare che si vede la concezione che ne ha. "Le". E' una cosa bruttissima: una vale l'altra, contano nel complesso. Quanto di più lontano dal mio modo di vedere le cose. Sarà anche per questo che sono single da una vita?

Il Tormentone della Settimana

Ormai mi sa che ne farò una "rubrica" fissa, visto che ogni tot. giorni succede che una canzone mi finisca in loop forsennato. Questa volta tocca a "Where Is My Mind?" dei Pixies, che a quanto pare conoscevano tutti tranne me, e brutti infami che non me l'han mai mandata.
Vabbé, che dire? E' una canzone emozionante, coinvolgente, adolescenziale e tutto. Anche questa da "colonna sonora", o per una scena di disperazione collettiva, tipo che succede qualcosa e una a una $persone iniziano a piangere, o per robe tipo paracadutismo, bunjee jumping, parapendio. Non chiedetemi come mi vengano ste associazioni, è semplicemente quel che mi immagino mentre ascolto le canzoni. Peraltro questa sta nella colonna sonora - credo - di "Trainspotting", ma come un mucchio di altri film famosi io non l'ho visto, dunque non so che funzione avesse lì.
Ecco, un'altra cosa è poi che il riffino distorto che c'è è di una banalità disarmante. Voglio dire, è troppo semplice, come fa a essere così bello? Son quattro note, e quando dico quattro dico quattro davvero, e non bisogna praticamente muovere le dita per farlo. Poi, il testo. Uno sente la voce, gli "ooh" spettrali dietro, e si immagina qualcosa di introspettivo, magari una riflessione sulla vita, che ne so, in ogni caso qualcosa di sensato. E invece no. Parla di piedi in aria e teste per terra, di nuoto e di pesci. Mi chiedo che diavolo voglia dire.

Pixies: Where Is My Mind?

edit: la foto è fatta da un utente di Ondarock. Non ha alcun legame di significato con la canzone ma mi sembrava ci stesse bene.

7.5.06

Ascolti della settimana (1-7 Maggio)

della settimana:
Katatonia: The Great Cold Distance
[Peaceville 2006]
7,5/10
Primo album che sento della celebre formazione doom metal svedese. Non posso pertanto fare paragoni coi dischi precedenti, ma quel che è certo è che questo mi ha colpito molto. Un sound eccelso, con più di qualche rimando ai Tool, ma anche parecchie vicinanze a Anathema, Porcupine Tree e perfino ai connazionali Anekdoten. A tratti più alternative rock che metal, questo disco sembra fatto apposta per chi il metal proprio non lo regge ma è un fan del versante più "duro" del progressive recente, con cui le somiglianze nel sound sono evidenti.
Non tutti i pezzi sono allo stesso livello, ma "Leaders", "Deliberation", "Soil's Song", "Rusted" sono davvero memorabili. A dispetto delle recensioni lette, non ho trovato il disco particolarmente deprimente: teso ed emozionante senza dubbio, almeno negli episodi migliori. Una scoperta da approfondire.

della settimana:
The Postman Syndrome: Terraforming [Now or Never, 2002]
8,5/10
Non so davvero come sia possibile che fino alla settimana scorsa non avessi mai sentito parlare di questo disco. E', senza mezzi termini, un capolavoro e merita di essere considerato tra i migliori e più riusciti album del nuovo millennio. La formula è una miscela tanto azzardata quanto sorprendente tra quelle dei principali nomi dell'alternative rock e dell'alternative metal contemporaneo: Radiohead, Deftones, Rage Against the Machine, Meshuggah, Tool, Neurosis, Dillinger Escape Plan, System of a Down, ma è evidente che lo stile compositivo e la concezione della musica discende direttamente da quello di Yes e King Crimson. Un album "progressive rock", insomma, e in una maniera piuttosto diversa sia dai revivalisti simil-prog che ai sempre più ostici (e interessanti) avant-progger, math-rocker e blackmetallari riconvertiti. La musica dei Postman Syndrome è infatti splendidamente "easy listening", orecchiabile: non sono composizioni, pièce astratte e cerebrali, ma sane canzoni con la loro bella carica rockettara. Come sti tizi riescano a creare brani così diretti e a fuoco partendo da una materia così varia, con continui cambiamenti e sovrapposizioni di stili, riffoni nu-metal e batterismi post-hardcore, delicati arpeggi e stacchi jazzati, è un mistero. I brani sono quasi tutti in metri strambi ma è impossibile accorgersene senza contare. Quello che lascia davvero esterrefatti di questo disco è la totale naturalezza con cui scorrono i pezzi, a dispetto della loro intricatezza: mai un passaggio fine a sé stesso, mai un momento bollabile come esibizionismo, solo la forza e il "flusso" di canzoni belle e trascinanti. Quest'anno escono i dischi di Day Without Dawn e East of the Wall, gruppi collegati ai Postman Syndrome. Non vedo l'ora di sentirli.

Altri ascolti:

Porcupine Tree: Deadwing [Lava, 2005]
7,5/10 (R)
Strana la situazione dei Porcupine Tree. Osannati dalla critica specializzata al punto tale che ormai è trendy dirne male, snobbati dalla critica musicale generale e bollati come derivativi e inattuali, con una larghissima base di fan che però tende a ripudiarne gli ultimi lavori. Se in tanti erano d'accordo sul considerare "In Absentia" un buon disco (ottimo, per quanto mi riguarda), sono stati invece relativamente pochi a accogliere positivamente l'ultima fatica di Steven Wilson e soci. E, in genere, i meno autorevoli.
Inizialmente anch'io ero rimasto perplesso, ma col tempo ho rivalutato questo disco. I Porcospini sono ormai un gruppo progressive metal a tutti gli effetti: certo per una strada diversa dagli stucchevoli virtuosismi che troppo spesso vengono abbinati al genere, ma distante anche dalla cerebralità di certe proposte estreme (pur assai gradite a Wilson). La matrice floydiana affiora ancora qua e là ("Arriving Somewhere, but not Here"), ma a far da padroni sono certo le influenze tardo-crimsoniane, con un'apertura (la title-track) che sembra uscita da "The Power to Believe". Ma bollare come derivativo il disco è davvero segno di miopia, perché è evidente che, a dispetto delle mille influenze, "Deadwing" è l'ulteriore prova che i Porcupine Tree hanno uno stile e un gusto propri, riconoscibili, influenti e parecchio accattivanti. Non sono certo il gruppo-copia di nessuno, anche se va ammesso che "Lazarus" suona assolutamente Coldplay (!). Tra la delicata durezza della maggior parte dei pezzi, emergono "Open Car" e soprattutto la splendida "So Called Friend" col suo riff prog-metallico in 14/8. Da non sottovalutare.

The Mass: City of Dis [Crucial Blast, 2004]
6,5/10
Questo è il classico disco di cui riconosco la validità ma non riesco ad apprezzare appieno. Probabilmente, questo lavoro piacerebbe da matti a chi, diversamente da me, non ha un'idiosincrasia viscerale per i blast beat di derivazione hardcore. Intendiamoci, però: normalmente quando attaccano i blast beat, prendo l'mp3 e lo butto nel cestino; qua la cosa è invece decisamente diversa. Perché devo riconoscere che ci stanno, sono usati bene e il risultato finale è bello. Ma vengo al dunque. I californiani The Mass propongono uno spazzcore progressiveggiante, vagamente metallico, che assomiglia a un incontro tra Hella e Flying Luttenbachers. Due sassofoni, cantato tra growl e scream, chitarre sferraglianti, delirii free-jazz, martellamenti hardcore e pause atmosferiche. Un disco senza mezzi termini, con una buona dose di caos primigeno non imbrigliato ma lasciato libero di dimenarsi mantenendo sapientemente un controllo a distanza. So che meriterebbe più di quel che gli ho dato, e lo riascolterò ancora per apprezzarlo meglio nonostante la mia hardcorefobia.

Meshuggah: I [EP] [Nuclear Blast, 2004]
7/10
Sui Meshuggah ho opinioni discordanti. Hanno inventato una lingua stupefacente, ma mi sembra non siano i migliori a parlarla. Tutti a celebrarne la complessità, ma a me sembra i loro pezzi siano spesso di una banalità strutturale disarmante. Mica brutti eh, affatto, anzi, assai belli, ma mi la sensazione è che abbiano una Ferrari e ci vadano come se fosse una BMW (cosa già non male). Questo "I" è un unico pezzo da 21 minuti, che non mi pare aggiunga molto a quanto precedentemente detto, anzi sia forse un passetto indietro rispetto a "Nothing". Certo, la musica fila che è un piacere, con incastri ritmici che trasformano lo stesso monolitico riff a ogni battuta, facendolo suonare sempre diverso. Nel complesso, però, manca un po' la "melodicità" di un "Destroy, Erase, Improve" e mi sembra che il pezzo sia sì fatto di buone idee, ma nel complesso non abbia un gran senso. E' sempre un gran bel sentire, però!

Santos: Home Sweet Home [Mantra Vibes, 2006] 5,5/10 (R)
King Crimson: Lark's Tongues in Aspic [EG, 1973] 8/10 (R)
Candiria: 300% Density [Century Media, 2001] 7/10 (R)

5.5.06

Ecco che arrivano i getti caldi

E' una canzone di Brian Eno, dal suo primo disco. E' una di quelle canzoni (ma quante ne conosco? solo lei, mi sa) che quando inizi ad ascoltarla non smetti più finché non vieni interrotto forzatamente. Spesso mi capita di associare alla musica delle ipotetiche scene di vita o di film a cui possa fare da colonna sonora. Questa canzone, come tante altre belle canzoni, accompagna certamente una scena in cui la morte c'entra qualcosa. Non è triste, eh, nemmeno depressa o che. Sembra scritta apposta per descrivere le sensazioni attorno a una morte importante. Il momento in cui uno, dopo aver pianto a dirotto magari per giorni, alza la testa e capisce che bisogna andare avanti. E' emozionantissima, calda come i getti del titolo.
Siccome sono un po' criptocomunista, ve la metto in share. Ascoltatela.

Brian Eno: Here Come The Warm Jets

3.5.06

Fatti e fattarelli

Ah ecco, è il caso faccia un riassuntino degli ultimi giorni. Credo saprete già la maggior parte delle cose, perché non sono tante e su tutte l'ho già menata a non finire, però vabbé.
Dunque, mi si è rotta la bici. E chi se ne frega. No, non avete capito. Si è rotta in modo assurdo. Tranciata di netto. Una delle due canne, intendo. Sì sì, così, senza ragione alcuna. Stavo andando e tram si trancia la canna bassa. La bici inspiegabilmente sta ancora in piedi: tiene solo la marcia più bassa e ha i pedali rasoterra, è pericolosissimo per la propria incolumità andarci in giro ma... per intanto me la tengo.
Poi. Ho cambiato cellulare ma la cosa è irrilevante. Ah no, non lo è affatto, meno male che me lo son ricordato perché non avevo considerato il fatto che son 100 € in meno che ho sulla PostePay. No, invece la cosa importante è che ho finalmente realizzato il mio sogno nel cassetto degli ultimi annetti. Ehm, uno dei tanti, intendo. Ho preso la chitarra elettrica. Quella che ho sempre desiderato: una Gibson Les Paul. E' una Studio del '94, un po' modificata, era del fratello di Gene Gnocchi (!) e l'ho pagata tantissimo per le mie casse, ma assai poco per il suo valore. Nera, manico d'ebano, rifinture panna. Suona da dio e, almeno per ora, non me la merito affatto. Posterei una foto ma i tentativi fatti con la webcam sono a dir poco deludenti. Beccatevi quella del sito della Gibson: la mia è proprio così.
Va detto che un'elettrica, senza ampli, è solo un soprammobile costoso, pesante ed ingombrante. E giustamente, spesi $tanti soldi per la chitarra, mi son dovuto accontentare di un catafalco della Skrauson (sopra c'è scritto Century GA-25, dev'essere un'imitazione di qualche modello serio) da 15 Watt. Era di un mio compagno di collegio, o meglio, nemmeno, glie l'avevan portato per qualche aggiustamento e non eran più venuti a riprenderselo. Questo per dire il valore che deve avere. Ma poco importa, per ora va più che bene, almeno inizio a giostrarmi con tutte quelle manopole e mi faccio un'idea orientativa per eventuali acquisti futuri.
La cosa spiazzante è che mi rendo conto di dover reimparare tutto da capo. Tutto tutto no: se avessi velocità, pulizia, precisione, conoscenza delle scale, degli accordi e delle posizioni potrei conservarle. Non avendo nulla di tutto ciò, devo ricominciare da capo, visto che anche il tocco e l'impostazione della mano, nel passaggio da acustica e elettrica, son da buttare nel cesso. Abituato a pestare come un dannato sempre e comunque, mi ritrovo a dover plettrare leggerissimo e stare attento a non urtare le corde. Ma anche questo imprevisto rimettersi ulteriormente in gioco ha un che di intrigante.
Sono pieno di idee (altrui, per la maggior parte) e ho una voglia matta di trovare il modo di ottenerle. Purtroppo il processo di approfondimento del combo chitarra-ampli potrebbe non entusiasmare particolarmente i vicini di stanza: d'altronde sto ampli funziona decentemente solo a volumi alti e non so che farci. Per intanto mi faccio le ossa con "Lark's Tongues in Aspic". Incredibilmente sono riuscito a ottenere un suono abbastanza vicino. Parto col piede giusto e sono fiducioso.
Basta? No, dovevo scrivere anche qualcos'altro... Boh. Non ricordo. Si vede che non contava molto. Ah, un'ultima cosina: un motivetto che mi è venuto in mente l'altro giorno in treno e ho buttato giù approssimativamente sul biglietto, per non dimenticarmelo prima di arrivare a casa. Alterna 14/8 e 15/8. Mi è venuto così, senza pensare prima al metro, e la cosa mi fa sperare in bene. E' anche piuttosto orecchiabile: fa un po' Camel e dovrò provarla col flauto. Ve la lascio qua, ma l'altezza delle note è solo indicativa. No. Non so più che fine ha fatto. Era da qualche parte nell'hard disk, maledizione. Oh, spero il biglietto sia ancora in giro, a Bergamo. Oter.
Buonanotte, va'.