MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


21.11.10

//Ƿi✝Ch_h▲Us Ѭ\\ (leggi: "witch housisms")

Se non ci avete capito niente del titolo, non preoccupatevi. Anche winamp non ci sta capendo niente di quel che sto ascoltando, l'album "✞◇✞" di (o dei?) ✝ DE△D VIRGIN ✝. Di come si legga il nome del disco non ho idea, ma so che tale †‡† sostiene che il suo nome vada letto "rrritualzzz". Quindi io posso tranquillamente affermare che il ghirigoro cirillico là in cima stia per "isms", non vi pare?

Forse però mi state prendendo per matto. Occorre allora fare un passo indietro: a un anno fa circa, quando sulla rivista "The Wire" il giornalista David Keenan conia il termine "hypnagogic pop":

L'hypnagogic pop è musica pop rifratta tramite la memoria di una memoria. Attinge il suo potere dalla cultura pop degli anni Ottanta, durante i quali nacquero molti dei musicisti coinvolti nel genere, e che solo ora stanno venendo fattorizzati nella musica underground come un'influenza spettrale. I reami ipnagogici sono quelli al confine tra veglia e sonno, zone-limite dove cose sentite male e allucinazioni alimentano la formazione di sogni. [...] lo spazio mentale di un bambino appena prima di addormentarsi, con musica pop e disco che da lontano arriva attutita attraverso il muro e si infiltra nel subconscio.
Al di là dell'incipit qui riportato, l'articolo è bruttarello, ed è principalmente una furbonata con cui Keenan cerca un po' di pubblicità per gli artisti del suo mailorder Volcanic Tongue: James Ferraro, Spencer Clark e altra gente del giro merdaiuolo americano. L'underground dell'underground, insomma.
Fatto sta che, al di là di ogni previsione dell'autore, l'etichetta rimbalza per mezza internet in men che non si dica, e tempo qualche mese tutti sono pronti a definire la propria musica "ipnagogica". Synth pop annacquato, ribolliture di Steely Dan, perfino sigle televisive smagnetizzate: tutto fa brodo, a patto che ricordi i tempi andati con retrogusto velatamente kitsch e un po' di nostalgica foschia. Anche intellettuali e sociologi del pop ci danno dentro, e rispolverano gongolanti l'idea di "hauntologia" elaborata da Derrida e già tempo fa sdoganata in ambito musicale da Simon Reynolds (per chi volesse documentarsi, c'è questo eccellente articolo che io non ho letto).

Insomma, l'hypna è la moda del momento per tutta la fine del 2009 e l'inizio del 2010. Poi a maggio Pitchfork se ne esce con una nuova mirabolante etichetta: "drag". Che non piace a nessuno e viene presto sostituita dal più evocativo "witch house".
L'idea alla base, invece, piace moltissimo: elettronica casereccia, lo-fi come può esserlo la musica di chi smanetta con Reason solo da pochi mesi (e da qui la house - che non ha niente a che vedere con quella dei club); poi atmosfere mefitiche, tra il tetro e il nebbioso, corroborate da cliché horror vari e rimasugli di mainstream ultrakitsch che come spettri infestano l'aere (questo invece è l'elemento witch). Ad affascinare, però, è soprattutto l'armamentario l33t/esoterico che da subito viene associato al genere: nomi impronunciabili e talvolta anche intrascrivibili (tra i più creativi: oOoOO, ///▲▲▲\\\, Pwin ▲▲Teaks, ℑ⊇≥◊≤⊆ℜ e il già citato †‡†), video very hypna saturi di immaginario da b-movie, foto solarizzate o giù di lì di riti magici vari, forme geometriche, icone pop di ieri e di oggi. L'hype è fulmineo, ma vaccinati dalla mezza sòla ipnagogica - e allertati dalla sottile affinità tra i due stili - molti tra i più scafati frequentatori di novità musicali guardano alla cosa con sospetto. "La solita bufala inventata dai giornalisti", e via. Io dico invece che a farla così semplice ci si perde molto.
Entriamo nella casa delle streghe, e capiamo il perché.


La "witch house" è l'ennesimo genere inventato dalla stampa. Il suo bello è anche questo: è bastato un articoletto con un pugno di brani in streaming perché un'intera scena esplodesse da quelle che fino al giorno prima erano solo una dozzina di tracce sparse tra Youtube e SoundCloud. Nomi ed estetica ritratti nell'articolo hanno fatto da modello per una masnada di hipster poco più che adolescenti (moltissimi sono sotto i vent'anni), e da un giorno coll'altro la "bufala" ha preso corpo. In principio era il verbo...
Non è questo l'unico elemento "meta" a rendere assieme emblematico e peculiare il genere, ma siccome sento una vocina che inizia a borbottare "Sì, ma la musica?" rimando a dopo le ulteriori considerazioni. E sia: parliamo di musica.

Il brano witch house è elettronico e non risponde alla forma-canzone. Ritmicamente, è un hip-hop rallentato, appesantito e privato di carica: spesso, alla base dei pezzi stanno versioni ultra-semplificate di beat à la Timbaland, o halfstep rubati a Burial senza avere il tempo di carpirne il groove e la blackness. Altre volte il gusto per lo spartano si spinge più in là, e avvicina le ritmiche all'incedere sonnolento della svedese Fever Ray. Siamo comunque sul downtempo, 90/100 bpm grossomodo. D'altra parte, non è musica da ballo: è roba da stanzetta, pensata per l'ascolto al pc.
I bassi sono poca cosa: la parte del leone spetta alle medie frequenze dei sintetizzatori. Presi di peso dal synth-pop più nebuloso, dopo una cura di rallentamenti ed effetti vari finiscono per somigliare agli sbalzi di intonazione nelle VHS invecchiate. Nonostante gli echi ambient, nonostante gli influssi shoegaze e l'aura chiesastica, emergono soprattutto per il loro carattere slavato.
Infine, la voce. Può essere presente o assente, ma quando c'è non è niente di simile a una rassicurante melodia principale. Piuttosto, affiora come elemento di sottofondo: un mormorio hip-hop lentissimo e stagnante, una nenia pop ridotta a sussurro, o ancora una filastrocca svogliata e filtrata da mille riverberi. Un fantasma, un'apparizione priva di calore. 


Questi i dati puramente tecnici. Niente che giustifichi grandi entusiasmi, si direbbe, e la musica sembra darne conferma: la mediocrità domina, e ben pochi pezzi sanno sedurre in modo realmente convincente. Per bene che vada, la maggior parte si limita a reiterare un cliché non particolarmente evocativo senza istillarvi personalità e - soprattutto - senza avere con sé idee compositive solide.
Guardando le cose più in prospettiva, però, si notano diversi dettagli molto interessanti. Il primo è che, per quanto siamo nell'era del miscuglio, la ricetta witch house mette a contatto generi che non si erano mai parlati. Hip-hop da classifica, darkwave, ambient industrial, dream-pop, perfino dubstep e (almeno nell'iconografia) black metal. Il connubio non si limita alla giustapposizione però, perché riesce a fondere le diverse anime in un suono coeso e amalgamato. Un suono che sta in piedi da sé, ed evoca una gamma di immagini ed emozioni in buona parte aliene agli stili "di partenza".
Qui arriviamo a un altro tratto peculiare, quello dell'interazione strettissima tra l'aspetto musicale e quello visivo nel dar vita a un immaginario inedito. Gli spettri della witch house, siano frutto di riti magici, malinconie latenti, popular culture sbiadita o vaghe memorie d'infanzia, condividono qualcosa con altri spettri moderni: gli ologrammi. Come gli ologrammi, sono immagini evanescenti che nascono dall'interferenza di due piani diversi - che di per sé risultano piatti e incolori, ma quando osservati in combinazione danno luogo ad apparizioni tridimensionali. La witch house è un "pacchetto" suono/immagine, in cui per l'effetto finale sono altrettanto determinanti i continui cut'n'paste musicali e i volti di popstar riflessi e tagliati da figure geometriche, i nomi "grafici" ed esoterici e i sintetizzatori piovosi stile Blade Runner. Per questo la domanda "Ma la musica?", ancor prima di ogni eventuale risposta, rischia di portare fuori strada: l'essenza della witch house sta da qualche parte a cavallo tra musica e altro, e volersi limitare al solo piano musicale ne farebbe notare giusto i dettagli più scialbi.


Non è chiaro se questa inscindibilità degli aspetti sonori e visivi nasca dal ruolo dominante di YouTube come canale di diffusione della witch house, o se sia quest'ultimo a discendere dalla natura ibrida del genere. Comunque sia (è un po' la questione dell'uovo e della gallina), c'è un dato significativo che il problema mette in luce: la witch house è il primo genere veramente internettiano nell'universo pop. I musicisti sono del tutto estranei al circuito live e intendono come "contatto diretto" con gli ascoltatori quello che si instaura tramite i vari Twitter, Myspace ecc., ma soprattutto le tracce nascono per YouTube e molte di esse manco esistono su supporto fisico (al massimo, un cd-r...). Non è un caso anche che lo stile witch house abbia incorporato elementi tipici di altre mode internettiane, dalla grafia l33t al "mash-up" audio/video all'assemblaggio di videoclip amatoriali riciclando filmati vari.
È sorprendente come la moda hypna abbia fatto da ponte tra uno degli universi musicali più luddisti di sempre - quello dell'ultra-lo-fi americano ancora attaccato alla cassetta, o al più al cd-r - e la galassia degli hipster internettiani entusiasti di ogni sorta di nuovo canale musicale e social network. In fin dei conti, però, l'attuale panorama di video semi-clandestini che circolano su YouTube coi loro nomi irrintracciabili (provateci voi a cercare su google una sequenza di caratteri pseudo-runici!) è, oltre che un ottimo strumento per alimentare la nomea esoterica del genere, anche quanto di più vicino a una replica "aggiornata" del labirinto di cassettine e mixtape tipico dello shitgaze americano. Un altro "salto" che fa riflettere è quello dei bersagli delle rivisitazioni ipnagogiche: se inizialmente ad essere ripescati erano soprattutto gli anni Ottanta (in qualche caso anche i Settanta), nella witch house la materia prima viene dritta dagli anni Zero: hip-hop mainstream, echi di dubstep marca Hyperdub e perfino Lady Gaga (l'icona pop preferita dalla scena, vittima di numerosissimi "drag remix"). Praticamente, alle memorie nostalgiche di qualche decennio fa si sono sostituite i ricordi finto-sbiaditi di ieri a dir tanto.


La witch house è l'hypnagogic pop che ha effettuato un salto generazionale: dai trentenni della grande provincia americana, agli studentelli poco più che adolescenti delle high school. Ragazzi sostanzialmente nuovi al mondo della musica, con una cultura fatta di pochi riferimenti solidi e molte band raccattate su SoundCloud. E dal mainstream USA che con ogni probabilità è stato fino a ieri il loro unico contatto con la pop music, e da articolazzi di Pitchfork come quello sulla witch house - su loro stessi, insomma. Eccoci allora tornati all'inizio, con una sorta di serpente che si morde la coda che senz'altro stuzzicherebbe i palati esoteristi dei giovincelli in questione, se solo la loro passione per il mistero andasse oltre la facciata.
Ma la witch house è anche questo: un genere di facciata. Uno stile che, incredibilmente, ha bypassato la fase "espressiva" iniziale (quella in cui si elabora un suono più o meno proprio per dare corpo al proprio modo di essere e comunicarlo) per configurarsi da subito come pura maniera. I pezzi witch house sono esercizi di stile, semplici applicazioni di una ricetta che fin dal primo momento è stata scritta nero su bianco. Anche per questo ha attratto frotte di pischelli privi di esperienza: per l'indubbia facilitazione data dall'avere un binario ben delineato, una serie di "istruzioni" semplici che rispettate garantiscono un risultato più che decoroso.

Quindi si tratta di un genere nato morto, destinato a tramontare con la stessa fretta con cui è sorto? Forse sì, forse no: molto dipenderà da quanto i ragazzi improvvisatisi musicisti grazie ad essa sapranno maturare, sviluppare personalità proprie e guardare oltre al canone del genere. Sono tanti però gli elementi che fanno intuire potenzialità per ora inespresse.
La witch house è il linguaggio di una "popolazione" nuova per il mondo musicale, la generazione nata nei primi Novanta assieme ai primi vagiti della internet di massa: i famosi "nativi digitali". È il territorio di incontro di molti dialetti musicali, nessuno dei quali effettivamente "lingua madre" degli artisti in questione - se non forse quel mainstream/kitsch che, in ogni caso, è impossibile padroneggiare fluidamente senza avere a disposizione l'arsenale tecnologico, tecnico ed economico delle major. Tutti gli stili da cui il canone witch house attinge sono in qualche modo travisati, "traditi": questo perché il gruppo sociale alla base del genere non è in continuità culturale con nessuno di essi. Ruba ritmi al dubstep, ma non ha alcun legame coi club londinesi e l'hardcore continuum di cui è frutto (da qui l'assenza di groove e profondità: il popolo della witch house non ha alcuna idea delle implicazioni fisiche del ritmo propagato tramite soundsystem da migliaia di watt!). Se conosce l'universo underground del lo-fi americano, è solo per sentito dire e tramite la recentissima deriva hypna - dalla cui vulgata nasce tutta la mania per spettri e reminescenze varie. Lo stesso vale per ogni altro ambiente a cui potrebbe essere accostato: il mainstream è un passato (magari da pochissimo) da parodizzare, il panorama indie una scoperta dell'ultim'ora, stimolante giusto per i panegirici scritti sulle webzine di settore, il black metal solo un calderone iconografico da cui prelevare immagini inquietanti e croci in fiamme.

Per quanto sconcertante, la situazione è la seguente: questo genere nato ieri, palesemente privo di elementi sonori originali e anzi esasperatamente stereotipato, è una novità assoluta nel panorama musicale. Un "cigno nero", che coglie impreparati e rende i pronostici pressoché impossibili. Tanto vale dunque goderselo oggi per quel che è, e attendere speranzosi nuovi spettrali sviluppi.




3.6.10

Ancora sui generi come lingue

L'altro giorno scrivevo dei generi dance come di creoli, o pidgin: era un paragone, non un'identificazione. Ci sono infatti punti rilevanti in cui l'analogia viene meno, e conviene evidenziarne alcuni esplicitamente.

Un pidgin (e un creolo successivamente) nasce dall'incontro di due culture e delle relative lingue, tramite rapporti sociali stretti e convivenza in uno stesso territorio. La storia dei generi musicali è più spesso quella di incontri a distanza, in cui un gruppo sociale "ricevente", già dotato di una lingua propria, entra in relazione con un  gruppo "donatore" solo grazie a immagini e registrazioni: dischi, videoclip, dichiarazioni - senza dunque un contatto diretto prolungato.
La differenza sostanziale a livello di dinamiche è nel ruolo delle comunità in gioco. La fusione culturale non sarà frutto di una mediazione a due tra entità linguistiche ben formate ("Cerchiamo una nuova lingua C che risulti comprensibile a me che parlo A e a te che parli B"), ma di un processo di evoluzione i cui attori saranno i "vecchi" provenienti dalla sottocultura ricevente e i "nuovi" che si aggregheranno attratti dalla nuova musica e dai suoi diversi volti socioculturali ("Sulla A innesto quegli elementi di B che vengono selezionati da una comunità C ancora in formazione").
Un esempio lampante è quello della prima hardcore inglese, nata dall'importazione della dance elettronica americana e l'innesto di questa sul substrato post-punk/street-punk preesistente senza che i "popoli" della house e della techno americana entrassero in contatto con le sottoculture punk inglesi. In questo caso, a fare da bussola per la creazione del nuovo idioma fu il nascente popolo dei rave, in gran parte formato da ragazzi del tutto esterni alla precedente cultura street-punk.

Ci sono situazioni però - non saprei dire se in numero maggiore o minore - in cui la dicotomia ricevente/donatore non è altrettanto funzionale. E' il caso del progressive rock, nato (semplificando) dall'incontro tra la cultura giovanile post-British Invasion e la più aristocratica tradizione classica. Le due culture erano a contatto e il loro punto di intersezione era costituito propriamente da quei giovani che avrebbero dato vita al prog: ragazzi di classe medio-alta che risultavano "parlanti nativi" di entrambe le lingue in gioco. La formazione pop-rock l'avevano ricevuta tramite i dischi, i concerti, la tv, i coetanei; quella classica, al contrario, era un'eredità delle famiglie, delle lezioni private di musica, delle serate a teatro.
L'asimmetria tra le due culture che si osservava nel caso dell'hardcore inglese qui viene meno, ma la situazione ricorda, più che quella di un pidgin o creolo, lo scenario di una lingua mista: di nuovo un idioma ibrido, nato però dal riadattamento linguistico di una popolazione bilingue piuttosto che dal confronto/scontro comunicativo tra due gruppi distinti. I ragazzi inglesi della borghesia universitaria disponevano già di idiomi musicali comuni, ma questi idiomi non li rappresentavano appieno: non erano unicamente loro, ma condivisi con altri gruppi (gli altri giovani, il resto dell'upper-middle class urbana) e pertanto non li identificavano. La creazione di un nuovo genere fu assieme un modo di unire le due anime musicale e distinguersi dagli altri dandosi un'identità. Ovviamente, il processo fu tutto fuorché consapevole - a scanso d'equivoci va precisato. Come va confessato che anche questa lettura è fin troppo restrittiva: alla creazione del genere concorsero evidentemente altre anime (quella jazz, per molti frutto degli ascolti "intellettuali" del college), e la dinamica complessiva rifletté comunque alcuni tratti della formazione di un pidgin: vi furono comunque forti elementi di "mediazione" - sul piano ritmico e armonico, soprattutto - perché le due comunità non erano del tutto amalgamate agli albori del genere (in molte band il tastierista veniva da studi classici, il bassista dal beat) e in fin dei conti non lo sarebbero mai state interamente (la situazione continua a riproporsi).

Una fenomeno ancora diverso - e di nuovo non assimilabile alle dinamiche di un pidgin - è la globalizzazione di un genere: la sua diffusione su scala (quasi) mondiale. Essa può avvenire per esportazione e riadattamento alle esigenze locali (la house che conquista ogni angolo del globo), rientrando in qualche modo nel meccanismo già visto per la hardcore inglese. Ma può anche svilupparsi come processo di omologazione di scene locali in qualche modo simili, che tramite contatti diretti e indiretti gradualmente convergono a una macro-scena dotata di caratteristiche unitarie.
E' questo il caso del post-rock, nato in maniera del tutto autonoma in Inghilterra e negli States (e anche qui da diversi germogli autonomi) ma poi confluito, nell'arco di una decina d'anni, in un genere transnazionale in cui le singole identità locali si distinguono a malapena. Il passaggio da una galassia di dialetti intercomunicanti e mutuamente intelleggibili a uno standard linguistico comune altamente grammaticalizzato prende il nome di koineizzazione (creazione di una koiné) e rende conto di una situazione analoga.
Oserei dire che proprio questo processo - assieme alla "creolizzazione" vista nello scorso post - è alla base della standardizzazione a i generi  vanno incontro inevitabilmente dopo la fase pionieristica iniziale. Non a caso, l'idea di koiné appare applicabile soprattutto alle "code lunghe" dei generi: gli stili largamente epigonici portati avanti dai nostalgici di questo o quell'altro filone ad anni se non decenni di distanza dalla loro fase più popolare. Neo-prog, drum'n'bass, hard-rock, industrial sono da tempo fossili musicali in cui le differenze geografiche - e perfino temporali! - tendono ad annullarsi, così come il senso di appartenenza dei fan alla propria specifica comunità locale (che pure continua spesso a esercitare un ruolo fondamentale, come cellula di un'élite globale di "fedeli alla linea").

Ci sono poi trasformazioni che si prestano poco alle analogie linguistiche. Alcune - specie quelle legate all'emergere di nuove tecnologie - possono comunque contribuire ad amplificare e accelerare alcuni meccanismi già descritti. Sarà il caso di discuterne in separata sede.

1.6.10

Elettronica, formati e i percome dell'ibridazione

Uno degli errori classici del cultore di rock che si avvicini all'elettronica è quello di trattarla - ça va sans dire - come il rock. Ovvero come una creatura che forgiata dalla rivoluzione del Sergente Pepe (+ annessi e connessi) e ancoratasi indissolubilmente a un formato: l'album. Negli anni questo è diventato feticcio e simbolo supremo dello status "artistico" della musica rock. L'assunto implicito che ha accompagnato questa cristallizzazione è: il rock è un'Arte, il musicista rock un Artista e come lo scultore crea stature, il pittore quadri e il poeta poesie, anche il musicista rock crea un preciso tipo di Opera d'Arte, e questo è l'album.

L'elettronica ha una storia diversa e questo processo non l'ha riguardata se non marginalmente. Sì, esistono gli album di musica elettronica e spesso sono opere d'arte fatte e finite, ma il focus è altrove. Il discrimine sta nella traccia - guai a identificarla frettolosamente come equivalente della canzone.
Prima di addentrarsi nella questione, però, è necessaria una precisazione lessicale. Io l'ho chiamata elettronica, ma più correttamente dovrei utilizzare un altro termine (e così farò, da qui in avanti): dance music. Perché la frattura è fra i Led Zeppelin e Jeff Mills, non tra quest'ultimo e Jean-Michael Jarre. A fare la differenza non è l'utilizzo esclusivo di strumentazione elettronica, ma il traguardo ideale in cui i pezzi nascono e a cui sono orientati: l'ascolto casalingo, radiofonico o concertistico in un caso, la comunione fisico/musicale del dancefloor nell'altro. Elettronica è il nome preferito dall'ascoltatore rock, perché gli permette di ignorare questa differenza costitutiva, e con essa l'inadeguatezza delle sue logiche all'universo dance e l'esistenza stessa di quest'universo. Meglio dance music, dunque.

Torniamo a noi: canzone e traccia. La canzone è un prodotto finito, un "capolavoro" (nel senso originario del termine); la traccia dance è invece materiale grezzo e perennemente in fieri, uno spunto che serve al musicista/DJ per allestire quello che davvero è il fine ultimo della creazione elettronica: il DJ set, il mix in cui tutto confluisce e la musica scorre di vibrazione in vibrazione permeando corpo e mente degli astanti.
Il DJ non è un artista: è un sacerdote. Da qui passa la distanza inconciliabile che - nonostante tutti i flirt e gli avvicinamenti - ancora oggi corre tra il mondo rock e quello dance.
Cosa ne consegue? Che seguire la dance tramite gli album è come assistere a una messa tramite versioni romanzate dei sermoni. Non che questi (gli uni e gli altri) debbano per forza essere brutti: semplicemente, sono qualcosa di diverso da ciò che si pretende di seguire.

Mille gli indizi che portano a questa osservazione. Tra i tanti possibili, concentriamoci sui più beceramente "rockisti" - quelli relativi al formato-album. O in generale al long-playing, va'.
L'album dance nasce tipicamente diverso tempo dopo le prime tracce. Il "nome" ce lo si fa non grazie all'LP - che arriva "a cose fatte", ma all'inclusione delle proprie tracce in questa o quell'altra compilation o mixtape, o ancora più volatilmente grazie al passaparola tra DJ - e di conseguenza ascoltatori e "critica". L'hype si crea perché Tizio programma costantemente un tuo pezzo nelle sue serate, perché dai che ti dai la gente inizia a dare in escandescenze quando riconosce il tuo pezzo in pista. E quando capita l'antifona anche Caio inizia a spingere su quel pezzo; altro che recensioni di Pitchfork.
Non solo l'album dance arriva dopo: è anche una cosa radicalmente diversa, un'esperienza di altro tipo. Prendiamo un classico della jungle, "Timeless". Crediamo davvero che Goldie si sia fatto un nome nell'estasi anfetaminica della rave culture con musica così soffusa e iperdettagliata? Chiaro che no: l'album appartiene già al post-rave, è un'elaborazione "da ascolto" di un sound nato per il ballo fino all'alba, è la trasposizione di uno stile da un contesto a un altro, con tutte le "falsificazioni" che è lecito aspettarsi un processo del genere.
E che dire delle numerosissime compilation ricapitolative della carriera di questo o quell'altro produttore? Puntualmente, si rivelano strumenti del tutto inefficaci per ricostruirne il percorso stilistico. Perché lo scopo non è quello, ma ricreare un DJ set fittizio che raccolga tutti gli episodi fondamentali di questo percorso - amalgamandoli però in uno stile fluente, coeso e aggiornato alle ultime tendenze, come avverrebbe in un DJ set reale.
Il long-playing, come il DJ set, è un qui-e-ora ed essendo il flusso - non il pezzo - l'oggetto di culto, non c'è alcun problema a riadattare lo stile a ciò che è nell'aria ora, con buona pace dei filologi.

Un'altra piccola considerazione ci conduce verso un discreto salto concettuale. Quel che spesso si osserva nel passaggio dall'immaterialità di un DJ set (concretissima a dire il vero, per chi è lì) alla resa su disco è una forte "grammaticalizzazione" dello stile. Quella che, nelle prime fasi di un genere dance, è una matassa di intuizioni, contaminazioni e contraddizioni che sulla pista da ballo si scontrano e interagiscono dando vita a situazioni sempre nuove, al momento della sua cristallizzazione su lp prende una forma definita: quello che era incontro occasionale o espediente fortuito si trasforma in regola, o ancora più spesso si conforma a una regola che tacitamente sta imponendosi nella scena.
Esempio: "The Roots of El-B", uscito l'anno scorso. Disco stupendo, raccoglie il materiale di uno dei pionieri del dubstep londinese: suona attualissimo, incredibilmente vicino a quel che c'è in giro ora... Certo, perché è uscito ora, e il suo realizzatore non ha esitato a far suoi fino all'ultimo pattern ritmico i canoni di un genere ormai ampiamente codificato.

Ed eccoci qua: quel che succede nel passaggio dalle prime tracce sparse, dalle prime serate e stupori di pubblico, alla pubblicazione di long-playing - insomma, dalla fase pioneristica di un genere alla sua maturità (volendola chiamare così) è un fenomeno simile a quello che, in linguistica, è chiamato creolizzazione.
Un creolo è una lingua bastarda, un ibrido tra due lingue autonome nato in un preciso contesto sociale dall'interazione tra due comunità. Una lingua a tutti gli effetti comunque, con le sue convenzioni e le sue regole - non scritte. Ma un creolo non nasce già perfettamente formato. E' preceduto da un pidgin, una non-lingua che è un mix instabile delle due lingue originali, una cosa tipo "provo a parlare nella tua lingua ma non so la grammatica, quindi semplifico di brutto e di quando in quando ci metto dentro parole della lingua mia sperando che ci capiamo lo stesso". Una cosa che varia da parlante a parlante, da persona a persona.
Quand'è che avviene il grande passo, che un pidgin si stabilizza e diventa creolo, una lingua a tutti gli effetti? Quando la prima generazione di bambini cresce avendo nelle orecchie il pidgin, acquisendolo come lingua materna. Sono loro che forgiano le regole del nuovo idioma - e loro che reiterandole finiscono per trasmetterle in parte perfino ai genitori.

E' cosi' per i generi? Credo di sì. Credo che un genere sia una lingua che nasce bastarda, tramite l'interazione di generi diversi (ovvero contesti sociali diversi, schemi ideali diversi, e via dicendo). Un genere nasce come cantiere linguistico, banco di prova di una nuova forma di comunicazione che travi le regole di un linguaggio per adattarlo alle esigenze di una nuova comunità. Una comunità che immancabilmente finirà per evolversi assieme a quel genere. Che nel frattempo qualcuno avrà provveduto, in base a qualche parametro, ad etichettare: techno, jungle, dubstep, wonky beats...
E la comunità attirerà nuovi adepti. Ragazzi che cresceranno come musicisti avendo nelle orecchie quei suoni, e alla domanda "che musica fai?" risponderanno con quell'etichetta che hanno imparato designarli. Con loro, inizierà inevitabilmente la fase "manieristica" del genere, o più semplicemente la fase grammaticalizzata: dall'iniziale pidgin musicale/culturale si sarà passati a un creolo... A cui anche una discreta parte dei pionieri iniziali finirà per adattarsi, al momento di passare dall'"oralità" del DJ set alla "forma scritta" del long-playing.

E poi? Poi un genere può morire, di stagnazione ed eccessivo dogmatismo; oppure evolversi, continuare a ibridarsi e raccogliere energie giovani: dare vita a una catena di nuovi pidgin e creoli musicali, reagire al flusso di una comunità che cambia.

28.5.10

I generi

Che la musica sia una e universale è ben discutibile. La musica nasce dal proprio contesto e da sensibilità ben mirate: se uno è totalmente al di fuori da quel contesto non avrà evidentemente i mezzi per capirla. Il che non significa che non possa accettare la sfida, ma difficilmente la vincerà con la mentalità del "la musica una".
Difficile apprezzare Bacharach se si pretende che regali le stesse emozioni dei Neurosis. Come dice DJ Sprinkles "la house non è universale, la house è iper-specifica", e non solo non potrebbe avere più ragione, ma vale anche per tutte le altre musiche. Se quindi si pretende di appiattirle tutte su un'unica linea a mio avviso si scalfirà solo la superficie.


Gozer il Gozeriano - Ondarock Forum


Partirei da qui. Negando l'universalità della musica, si apre un vaso di Pandora.
Esiste un legame profondo tra musica e contesto, e spesso entrare in sintonia coel secondo è fondamentale per far propria la prima. Non parlo solo di approfondimento storico/biografico, ma soprattutto di comprensione e condivisione di quel sistema di valori, sogni e timori che con certa musica è legato a doppio filo. Perchè era incarnato dalla figura dell'autore, magari, ma anche e soprattutto perché quei sentimenti "risuonavano" con gli umori di un'epoca e i bisogni di un gruppo sociale più o meno identificato.

La storia della musica è una storia di rapporti privati: l'autore e la sua creatura, l'ascoltatore e i sentimenti che lega a una canzone, un disco o un personaggio. Ma è anche una storia di rapporti collettivi, di valori condivisi e sottoculture che alle semplici note hanno dato un senso e un'anima, che le hanno rese simboli e spesso hanno contribuito a generarne di nuove. Lo stesso rapporto privato dell'ascoltatore con la musica passa inevitabilmente da questa dimensione più grande.
Questo magma di suoni, simboli, luoghi, valori, nasce e si sviluppa come un sistema, man mano sempre più definito. Si articola in un genere, probabilmente l'oggetto più complesso di tutto l'universo pop, assieme alla canzone.
In un genere convergono l'elemento soggettivo e quello sociale, l'aspetto tecnico-musicale e quello di immagine: una rete in cui i livelli piu' diversi intessono rapporti di rinforzamento reciproco o parziale contraddizione.

Può sembrare anacronistico pensare che, anche nell'era della morte del rock come fenomeno sociale, "generi" intesi a questo modo possano continuare a svolgere un ruolo cruciale. Eppure anche oggi avviene di scoprire la musica "a fette", appassionandosi ai diversi generi uno per volta, o magari restando per sempre orgogliosamente confinati all'interno di alcuni.
Internet ha sì mutato le cose, perché ha sciolto il vincolo temporale e geografico tra musica e ascoltatore. Nel farlo, però, ha dimostrato anche quanto forti e efficienti fossero le codifiche dei generi, capaci di risuonare in modo quasi immutato coi sentimenti di persone che ben poco hanno a che fare con l'orizzonte originario di quella musica.
Per non parlare delle mille sottoculture internettiane e delle micro/macro-oasi in cui determinate preferenze tendono a diffondersi: dai forum a rym, dai social network alle reti p2p. Fino ad arrivare a quelli che sono a tutti gli effetti nuovi "popoli" della musica, con tanto di "generi" a cui possono essere associati: Pitchfork e la "roba da hipster" ne sono l'esempio piu' lampante.

Il fenomeno più rilevante emerso con internet, però, è quello della lettura deviante. Qualcosa di cui già parlavano i post-strutturalisti a fine 60, che oggi si è dimostrata fatto assolutamente quotidiano: la possibilita' di apprezzare qualcosa per motivi totalmente diversi da quelli che le sarebbero originariamente associati. Amare certa musica tramite meccanismi del tutto indipendenti da quelli che la codifica di genere le proietterebbe sopra.
Difficile immaginare la cosa per generi interi; già per singoli artisti il fenomeno è raro: ciascuno però avrà pezzi e dischi che ama alla follia pur non apprezzando il resto delle cose usualmente considerate "simili" (perché dello stesso autore, perché dello stesso genere ecc). Di certo la cosa non è nata con internet, ma il fenomeno ne è stato amplificato, complice la possibilità di avvicinarsi a musica lontanissima dalla propria esperienza quotidiana ignorandone tutto sommato qualsiasi cosa riguardo al contesto.

Tutto può dirsi insomma, meno che i generi non esistano o non abbiano peso. Chi ne nega la centralità nell'orientare gli ascolti, afferma per via implicita l'ideologia della "lettura deviante", in cui poco importa di entrare in sintonia con i diversi universi "di genere", i loro valori e le loro categorie estetiche - quello che conta sono le sensazioni che l'ascoltatore prova ascoltando la musica in un rapporto idealmente non mediato da altre strutture, per quanto pertinenti queste possano essere.
Siccome però la musica è fatta di codici e senza uno "schema interpretativo" la musica non comunica, il rischio di questa ottica è quello di "prendere a prestito" senza volerlo le chiavi di lettura proprie di altri generi tentando vanamente di applicarli a territori che non sono consoni. Il risultato è non riuscire ad apprezzare una grandissima parte della roba che si ascolta, pur ritenendo comunque di procedere nel modo piu' "aperto" possibile.

Al di là di questo, mi stupisco di come di generi si tenda a parlare poco, specie a livello di critica. I riferimenti en passant in recensioni e articoli non si contano, come è tantissima la letteratura che cerca di parlare dei principali risultati musicali di un genere o dell'altro: nonostante questo, i tentativi di analizzare un genere in tutti i suoi risvolti, comprendendone e decodificandone l'architettura dei valori, sono veramente pochi.
Maestro indiscusso in questa rara arte è il solito Simon Reynolds, che piu' ancora che nell'ultracitato articolo sul post-rock, ha scritto pagine epocali sull'"ideologia" indie-pop e sul "funzionamento" della musica elettronica di stampo jungle (entrambi riportati su "Bring the Noise").



A questo proposito, il poco che son riuscito a beccare in rete in italiano:

L’indie-pop tende a dipingere l’amore in termini di devozione e idealizzazione, praticamente privo di allusioni sessuali. L’esperienza dell’innamoramento viene descritta in termini onirici, extracorporei. All’indie pop interessano i dettagli del corteggiamento, delle atmosfere evocate. Sofferto e problematico, l’amore indie-pop è un amore adolescenziale. Un tempo il rock si nutriva dell’ostentazione del corpo e del desiderio,rivelando la cruda verità dei sensi. E’ interessante dunque notare come il ” puro amore ” sia diventato più trasgressivo del libertinismo o della sfrontatezza sessuale alla Mick Jagger.

[...]

Un’idea di innocenza infantile pervade la scena indie. Si predilige l’ingenuità, l’entusiasmo ed il disordine tipici della fanciullezza. Si percepisce un atteggiamento condiviso di rimpianto, la voglia di stabilire un legame magico e candido con il mondo. Si tratta di una concezione romantica dell’infanzia, abbracciabile solo da una mente letteraria (ovvero il tipico fan indie). In realtà i bambini di oggi vogliono crescere in fretta e assomigliare a Simon le Bon o Madonna. L’infanzia ha riacquistato importanza perchè offre un immaginario ricco di potenziale dissidente. Laddove la ribellione rock si basava sulla verità censurata del desiderio adolescenziale,questa forma di indisciplina non è solo consentita ma prescritta come modello. Gli anni sessanta spadroneggiano nello schema indie perchè sono gli ultimi nei quali le idee di infanzia e di innocenza perduta erano monete corrente. Gli hippy, i situazionisti, ma pure la psicanalisi pone nel gioco la componente cruciale per la rivoluzione culturale. La musica ( pensiamo ai Pink Floyd ) rifletteva questa convinzione secondo la quale crescere è un percorso di brutalizazzione. Non di rado sembra che l’indie tipo si sforzi di assomiglaire ad una persona qualunque degli anni sessanta o cinquanta. Ecco dunque le tracce di abbigliamento pre-permissivismo: cardigan, soprabiti, eskimo, giacche corte, foulard, berretti e zazzere corte che probabilmente appaiono peculiari a quanti un tempo dovevano adottare quel look e oggi si godono il diritto di esibire una lunga chioma cotonata. Mescolati a questi elementi, troviamo i tratti infantili: Magliette da compleanno, felpe fuori misura, fiocchi e nastrini, colori vicaci, orecchie bene in vista. Persistono sporadici elementi punk o psicadelici ma l’effetto complessivo è infantile, perchè l’infanzia è l’unico momento della vita in cui i colori vivaci sono appropriati. Nel tentativo di non vestirsi come si pensa debbano vestirsi le donne per essere sexy, alcune ragazze sono incappate in uno stile ricco di connotazioni pedofile. La scena indie si sforza di proteggere l’innocenza dall’impatto di una cultura sofisticata. Ecco perchè attinge quasi esclusivamente da modelli bianchi; L’etica fai da te non attechisce nella musica nera, dove prevalgono raffinatezza e professionalità ( almeno fino all’avvento del rap ). Un tempo il rock ribelle poteva nutrirsi dell’animalismo proibito dell’ R&b, ma oggi quell’energia sessuale è solo un altro ingranaggio dell’immensa macchina del music buisness. Il conflitto tra desiderio e materialismo illustrato da Satisfaction degli Stones, non è più all’ordine del giorno. 

 
Simon Reynolds - Hip-hop-rock

A volte ritornano

Che me ne faccio di sto blog? Ogni tanto me lo sono chiesto, in questi mesi. O anni.
Dovrei/Potrei.../Però è troppo sbatti: essenzialmente mi son sempre dato questa non-risposta. Niente di drammatico lasciare in disuso sto posto: ne ho già fin troppi altri da seguire.

Oggi vagolavo per Pavia e mi è venuta un'idea diversa. Invece che sul forum, dove giustamente non se li fila nessuno, i miei pipponi metamusicali li scrivo qui. Se sia una buona pensata o meno, lo valuterò tra un po'. Per intanto, ripubblico un po' di vecchie robe mai troppo comprese (neanche da me, per dire).

Se poi qualcuno le legge pure, ovvio che sono contento.

10.2.10

10 anni in musica

1. Sufjan Stevens - Illinois (2005)
Disarmante. A chi si illude che la bellezza pura e semplice non abbia più diritto di cittadinanza, "Illinois" porge l'altra guancia. Un disco schivo, estetizzante? Tutto il contrario. E' la gioia della creazione ad animare questa girandola di canzoni, in un frullio di rimandi fantasiosi, melodie indelebili e divertissement orchestrali. Tutto molto postmoderno, tutto molto leggero.
Un caleidoscopio. Anzi: vetrate, grandi e colorate. Canzoni che si rincorrono come personaggi di una storia, temi che si sovrappongono, e voci e strumenti tutte unite in un disegno che sono mille assieme.
E poi la luce. Filtra nell'esile superficie di vetro e la inonda di vitalità. Accende i colori e arriva a noi. Ci rapisce, ci riunisce: la voce sottile di Sufjan Stevens, l'orchestra, gli echi di minimalismo, in un'estasi che ridà senso a una parola: spiritualità.

2. At the Drive-in - Relationship of Command (2000)
Irruento, impulsivo. Eppure intricato. Millimetrico. "Relationship of Command" spinge il post-hardcore a un punto di non ritorno. Da lì in poi, potrà essere solo progressive. Ma questi dodici brani sono in perenne bilico, sul filo del rasoio: tra carica e ambizione, impeto e organizzazione, rabbia, passione, immaginazione.

3. Tool - Lateralus (2001)
Quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius. La complessità di "Lateralus" è quella del mondo, è quella del cosmo.
Un labirinto iniziatico in cui l'anima si dissolve e riappare come fantasma. Spirito latente tra enigmi e simmetrie. Più che metal, esoterismo.

4. Tortoise - Standards (2001)
E infine fu il manierismo. Ci vuole classe, tantissima classe per gestirlo, e i Tortoise ce l'hanno. Con lucidità e minuzia, cesellano il manifesto del nuovo post-: Smonta E Rimonta, e tanti saluti alla sostanza. Ritmi scomposti, dubberie, luoghi comuni decontestualizzati e ricombinati. Mondi in minatura, paradisi della pura forma.
Nessuno spazio per le emozioni, ma tanto è perfetto il gioco che non se ne sente la mancanza.

5. Radiohead - Amnesiac (2001)
Astratto, forse cubista, "Amnesiac" è il post-rock che si impossessa del pop. Canzoni svuotate, emozioni evaporate lasciando scoperte gelide ossature elettroniche. Screziate solo da un pulviscolo irriducibile: virus, batteri, microorganismi jazz che, anarchicamente, ricolonizzano la desolazione.

6. My Latest Novel - Wolves (2006)
Folk: musica della comunità. Quello di un tempo è estinto o non è più tale, ma il bisogno di musica che parli al plurale è ancora vivo. Con le note, se non con le parole: i pezzi di "Wolves" sono allora timidi, delicati ma anche epici e avvolgenti. Tra crescendo acustici e legami tradizionali, emerge lo spirito di una nuova coralità.

7. Godspeed You Black Emperor! - Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000)
Soft/loud è sinonimo della deriva più emotiva della galassia post-. Quest'album ne è il testo sacro: suono amplissimo, aperto ad archi e fiati; poi sovrapposizioni minimali, cambiamenti climatici, tempeste, schiarite inattese. Abbandonarsi in balia del suo flusso toglie il respiro.

8. Vampire Weekend - Vampire Weekend (2008)
Spensierato, estroso ma in fondo un po' malinconico, quest'album rivitalizza quel che sembrava morto e spolto. La sgangheratezza dei Feelies e la meraviglia world di "Graceland", ma soprattutto un modo entusiasta di guardare alla multiculturalità.Senza perdere la propria identità, senza forzare quella altrui.

9. Explosions in the Sky - The Earth Is Not a Cold Dead Place (2003)
Volare. Una breve corsa a terra, qualche battito d'ali, poi salire e salire, trasportati da una corrente ascensionale. Traversare le nuvole e, d'un tratto, vedere il sole. E il mondo sotto è un oceano bianco, e planare dolcemente ha il suono dell'essere liberi. Suono di chitarre: nitide, cristalline, un'estasi di intrecci e giravolte.

10. Daft Punk - Alive 2007 (2007)
Ce ne ricorderemo tra un secolo, con nostalgia e ammirazione. Come oggi ricordiamo il Futurismo.
(Perché un live? Perché qui il genio cubista dei due caschi più famosi di Francia gioca con sé stesso come non mai. Perché in quest'album 2+2 fa 6, e "Around the World" + "Harder Better Faster Stronger" dà infinito.)

11. Uochi Toki - Libro Audio (2009)
Miglior disco hip-hop italiano di sempre? Con cinismo, puntigliosità e una certa dose di terrorismo sonico, musica e testi danno a capire che solo un idiota potrebbe ragionare così ("migliore"? "hip-hop"? "di sempre"?)
E poi questo è un libro-disco. Ovvero, essenzialmente, un album che fa sentire l'ascoltatore un idiota. Ad avercene.

12. Four Tet - Rounds (2003)
C'era una volta la folktronica. E Four Tet, già allora, era il migliore. "Rounds" è sospensione e meraviglia, fantasia e circolarità. Hip-hop, glitch e tepore acustico. Leggerezza, brezza sottile, spiritualità.

13. Radiohead - Kid A (2000)
Il gemello di "Amnesiac" è forse (forse!) un po' meno claustrofobico. Sognante, etereo, non per questo ottimista: anzi, il suo ibrido post-punk/elettronica è quanto di più alienante abbia partorito il pop in tempi recenti.

14. 2 Many DJ's - As Heard on Radio Soulwax Part 2 (2002)
La palma di album più spassoso del decennio spetta alla magna opus del bastard-pop. Pop, rock, dance di ogni genere ed era frullate in un flusso irresistibile di mostri Taglia E Cuci. La testa di una canzone, la coda di un'altra, la base di un'altra ancora. Irriverenza: molta. Snobismo: zero. Una fotografia perfetta dello spirito dei tempi.

15. Circle Take the Square - As the Roots Undo (2004)
Frenesia, enfasi, convulsione: questo è lo screamo, la frangia più sanguigna del post-hardcore. Ma "As the Roots Undo" è il suo approdo più evoluto, un caos ordinato che ha fatto sue le diagonali del math-rock e i crescendo celestiali del soft/loud. Uno spirito folk del tutto inaspettato fa di questo disco intensissimo lo specchio nascosto di una generazione, dei suoi malesseri, dei suoi sogni.

16. Isis - Panopticon (2004) [post-sludge]
17. The Shins - Chutes Too Narrow (2003) [indie-pop]
18. múm - Finally We Are No One (2000) [folktronica]
19. Bloc Party - Silent Alarm (2005) [indie-rock]
20. Tim Berne - Science Friction (2002) [avantgarde jazz]
21. Modest Mouse - We Were Dead Before the Ship Even Sank (2007) [indie-rock]
22. Amon Tobin - Supermodified (2000) [IDM]
23. Port-Royal - Flares (2005) [soft/loud]
24. Anathallo - Floating World (2006) [progressive pop]
25. Hood - Cold House (2001) [post-rock]
26. Supersilent - 6 (2003) [improvvisata]
27. Arcade Fire - Funeral (2004) [indie-rock]
28. Subtle - A New White (2004) [post-hop]
29. Gravenhurst - The Western Lands (2007) [indie-folk/rock]
30. Wilco - A Ghost Is Born (2004) [indie-country]

In ordine alfabetico:
Blur - Think Tank (2003) [art-pop]
Burial - Burial (2006) [dubstep]
edIT - Certified Air Raid Material (2007) [glitch-hop]
Espers - II (2006) [progressive folk]
Efterklang - Parades (2007) [progressive pop]
Hala Strana - Hala Strana (2003) [psych-folk]
iTAL tEK - Cyclical (2008) [dubstep]
Mew - And the Glass Handed Kites (2005) [progressive pop]
Mice Parade - Mice Parade (2007) [indie-rock]
Muse - HAARP (2008) [progressive pop]
Nico Muhly - Mothertongue (2008) [minimalismo]
Passage - The Forcefield Kids (2004) [hip-pop]
Porcupine Tree - In Absentia (2002) [progressive rock]
Sigur Rós - Takk... (2005) [soft/loud]
SND - 4,5,6 (2008) [glitch]
The Postman Syndrome - Terraforming (2002) [progressive rock]
Toumani Diabaté - The Mandé Variations (2008) [africana]
Tunng - Comments of the Inner Chorus (2006) [folktronica]
Vitalic - Flashmob (2009) [house]
Yugen - Labirinto d'acqua (2006) [avant-prog]

18.12.09

La non-recensione

Doveva essere la recensione, per Ondarock, dell'ultimo album dei Pelican. S'è poi deciso che è meglio di no, roba un po' troppo da blog. Quindi perfetta per qua, no?


Flames to dust
Lovers to friends
Why do all good things come to an end?

Nelly Furtado (o chi per lei)


Non so che fare, col nuovo album dei Pelican. Ore e ore a perdersi nei mondi di lava dei loro dischi; l'emozione, al concerto, di essere a un niente dal palco; e parole parole parole spese a cercare di trasmettere la passione, di mostrare nei loro riff montagne e vallate e corsi d'acqua e...
E poi metter su "What We All Come to Need" sapendo già quel che mi toccherà duramente ammettere: che questa musica non mi dice più niente.

Ascolto "Ephemeral" e scopro il senso di critiche che mi erano sempre parse assurde. Mi rivedo i nostalgici del post-rock, a lamentarsi del tradimento di Pelican e soci verso la dottrina emotiva di Mogwai ed Explosions in the Sky; ripenso ai rocker duri e puri che trovavano "The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw" flaccido e il batterista una scarpa.
E non ho il coraggio di riascoltare quei dischi per ri-sbugiardarli; è troppo forte il timore di dover riconoscere: "avevano ragione".

Tutto questo è molto poco professionale, e mi spiace per te che leggi. Avrai pensato di trovare in queste righe una recensione vera, bella o brutta che fosse, una cosa tipo "What We All Come to Need" prosegue sulla strada di "City of Echoes", ingentilendone gli intrecci, senza rinunciare al versante più hard eccetera eccetera. Invece non sono nemmeno in grado di stabilire se questo disco è un po' meglio o un po' peggio di quello prima: nemmeno me la sento di giurare che sia la stessa solfa (ma direi di sì, a parte "Final Breath" che ha - finalmente! - un po' di cantato).
Sono stato troppo tempo lontano da questi suoni, e ora che ci ritorno mi accorgo di non capirne più lingua.

Isso bandiera bianca: il voto sotto giudica me.


(il voto in questione era 5, su 10)


ps. Sui Pelican avevo pubblicato qualche anno fa un'altra recensione, di tutt'altro tono: http://www.ondarock.it/recensioni/2007_pelican.htm

16.6.09

Contro l'Arte

Quello che segue è un pot pourri di già detto, già scritto e già sentito. Un fritto misto di Eco, Deleuze, Barthes, Lakatos e Derrida messo insieme alla bell'e meglio. Un collage di idee con alle spalle minimo trent'anni (alcune forse anche superate) che però continuano non hanno mai fatto breccia fra la massa, presso cui continuano a destare scalpore e risultare assolute novità - pardon, assurdità.

Stanco di ricevere commenti scandalizzati, amareggiati, allibiti o semplicemente derisori ogni volta che faccio riferimento a uno dei concetti che seguono, ho pensato di scrivere una buona volta, per filo e per segno, perché non ne posso più dell'Arte con la "a" maiuscola e dei dogmi che le permettono di sopravvivere nonostante la palese inadeguatezza ai tempi moderni.


Contro l'Oggettività

Alla critica è solitamente attribuito il ruolo di valutare l'arte - in parole povere, di distinguere tra quella "buona" e quella "cattiva". Di fronte all'ovvia domanda "Che cos'è l'arte buona, che cos'è quella cattiva, e come si riconosce l'una dall'altra?" una risposta frequente suona qualcosa come: "L'arte buona è quella che risponde ad alcuni criteri, e la valutazione secondo questi criteri permette di operare la distinzione". Questi criteri (ne cito alcuni, particolarmente gettonati: originalità, innovazione, compiutezza formale, perizia tecnica, ispirazione) sono spesso visti come oggettivi: permetterebbero una valutazione indipendente dal soggetto che la esprime, dalle sue preferenze, dal tempo in cui vive.

Se nelle righe precedenti tutto sembra filare liscio, c'è qualcosa che non va: sono pressoché inaccettabili. Le obiezioni da sollevare sono molte, radicali e di grande importanza.
La prima: se anche esistessero criteri oggettivi di valutazione nessuno garantirebbe che la loro applicazione condurrebbe alla determinazione un valore artistico ammissibile come tale. L'arte ci colpisce perché colpisce la nostra sfera soggettiva, stimola pensieri ed emozioni personali: ogni valutazione che prescinda dalla dimensione soggettiva, dall'impatto razionale ed emotivo, sarebbe del tutto inadeguata a render conto dell'esperienza artistica.

In effetti, estremizzando, è perfino discutibile la nozione di oggetto in campo artistico: l'arte vive nella dimensione soggettiva, e formulare un giudizio significativo su un'opera - qualcosa che vada oltre alle dimensioni della tela, la composizione dei colori, la data di realizzazione, ecc. - è sempre fare riferimento alla propria percezione. L'opera è allora rifratta costantemente in una galassia di sensazioni personali, simbologie, significati soggettivi al di fuori della quale non è mai dato di ammirarla. Un fiore dai mille petali, il cui centro risulta invisibile e - soprattutto - insignificante. Inesistente, si potrebbe dire, abbracciando la molteplicità delle diverse "mappe" soggettive che sostitituiscono il "territorio" e vanno così a costituire il nuovo, spettacolare oggetto dell'analisi artistica.

Si stava però discutendo di criteri di valutazione. La scelta di questo o di quello è largamente arbitraria, così come lo è il peso da attribuire loro. Se spesso non ci accorgiamo di questa arbitrarietà, è perché non sempre siamo consapevoli delle premesse da cui discendono le nostre decisioni. L'esplicitazione delle premesse implicite alla base dei nostri giudizi - premesse spesso per nulla inattaccabili, ma profondamente soggettive o determinate dal contesto culturale in cui viviamo - comporta sì la rinuncia all'assolutezza delle convinzioni, ma anche una maggiore consapevolezza della loro struttura logica, delle basi su cui poggiano e di quelli che sono i loro limiti.

Si può dire in questo senso che tanto più un pensiero riesce ad essere consapevole della propria soggettività, tanto più mette a nudo i pilastri che lo sorreggono, quanto più risulterà - a modo suo - oggettivo: "queste sono le mie premesse, e all'interno di questa cornice logica io sono valido". Al contario, proprio quegli argomenti che paiono più solidi e "oggettivi" sono invece i più instabili ed insidiosi: poggiano inconsapevolmente su impalcature ingombranti e arrugginite, che lo spingono molto lontano da quel ground level che dovrebbe corrispondere - ammesso che esista - alla fantomatica realtà così com'è.


Contro l'Autore


Il compito dei rami è allontanarsi dalle radici. L'autore crea, diffonde e poi tanti saluti, la sua creatura inizia a ballare da sé. Quando può (mai). Il più delle volte, a farla sgambettare è chi ci si ritrova a confronto - il fruitore. Che è libero di farne quel che gli pare e, soprattutto, di interpretarla come gli pare.

L'autore può avere tante e magnificentissime idee sulla sua opera e il significato da attribuirle, ma restano idee sue, tali e quali a quelle di chiunque altro. Non c'è motivo alcuno per privilegiarle: certo, si potrebbe dire che l'ottica dell'autore difficilmente farà apparire l'opera poca cosa, che verosimilmente l'autore disporrà di una buona chiave di lettura per il suo prodotto, ma non è affatto detto che questa chiave di lettura sia consapevole, né che sia esportabile ad altri.
Spesso e volentieri, l'ottica dell'autore è estremamente limitante. Sono molti i casi in cui le opere sono apprezzate col senso dato loro dalla critica anziché dal loro autore. Talvolta, l'autore neppure sospetta (né sarebbe in grado di sospettare) che la sua arte possa assumere determinati significati - vedi casi come quello dell'outsider art, del trash inovolontario ora elevato a sublime, dell'arte rurale che oggi finisce per rappresentare tutto il mondo e il sistema di idee in cui opera l'artista, piuttosto che la piccola cosa che questo intende ritrarre.

Anche senza ricorrere a fenomeni borderline, l'ottica centrata sull'autore mostra tutta la sua inadeguatezza quando tenta di render conto del perché qualcosa piace. Ciascuno di noi inserisce ciò che ama nel suo vissuto personale, e lo ama proprio per la relazione che viene a crearsi tra vita, idee e oggetto amato. Quanti sono i casi in cui ci sentiamo legati a una canzone perché ci ricorda di qualcosa o di qualcuno? Senz'altro parecchi. Se aggiungiamo quelli in cui il legame nasce dalla particolare, magari anche episodica, relazione tra le nostre idee e le nostre emozioni e quelle che leggiamo nella canzone, arriviamo a includere la quasi totalità della musica che apprezziamo - e di quella che detestiamo, anche.
Ora il punto è: chi dice che ciò che noi leggiamo nella canzone corrisponde alla volontà dell'autore? Di certo i Joy Division di "Love Will Tear Us Apart" non immaginavano che la loro canzone sarebbe stata amata a venticinque anni di distanza da stuoli di ventenni perché mi ricorda quella scena di Donnie Darko che mi ricorda le feste del liceo che mi ricordano il mio primo bacio. Né d'altra parte Sterne poteva aspettarsi che dopo secoli "Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo" sarebbe stato apprezzato dagli amanti del post-modern come versione ante litteram del genere.

Esempi forse estremi, che vogliono rendere palese e manifesto un fenomeno molto più universale: nei libri, nei quadri, nella musica leggiamo quello che mettiamo noi, non quello che l'autore voleva fosse letto. La volontà e le vicende dell'autore potranno essere, a seconda dei casi, interessanti, illuminanti, irrilevanti, fuorvianti, ma in ogni caso sono altro rispetto alla sua opera. Ma è solo traviando le intenzioni dell'autore che un'opera può ispirare nuove idee, indurre una trasformazione nell'arte a venire. Concepire soltanto l'ottica prevista dal creatore rischia di essere, oltre che praticamente impossibile, anche profondamente masochistico: il fruitore fatica nel confronto con l'opera, cerca strategie e nuovi approcci per comprenderla, e se riesce nell'impresa, l'opera acquista un significato e diventa parte della sua vita.
E' un peccato gettare via quest'opera di creazione, e le soddisfazioni che ne derivano, solo per negare che il vero autore è il lettore.


Contro l'Autenticità

Alla musica, al cinema e alla letteratura si chiede spesso, e curiosamente, di essere "autentica". Di esprimere i reali sentimenti dell'autore, di non essere un prodotto artefatto, costruito a tavolino. Altrettanto curiosamente, non si fa lo stesso con l'architettura, e a nessuno salterebbe in mente di chiedere di essere "autentico" a un attore teatrale (il cui mestiere è quello di non esserlo).

Ciò che accusiamo di essere "falsa" è l'immagine dell'autore che ci creiamo in base alle nostre sensazioni e alle nostre conoscenze. Quest'immagine è il punto d'arrivo del ponte opera/autore che tracciamo (che il fruitore traccia, terzo incomodo onnipresente, chiave di volta di ogni esperienza artistica), una ricostruzione a posteriori sulla base di tracce sparse qua e là, e in quanto tale, una costruzione in piena regola. Architettura, una cosa che non può essere né vera, né falsa: semplicemente, è costruita.

Si può affrontare la questione anche da un altro punto di vista, tornando per un istante all'ottica autore-centrica ma ricordando che ogni opera è altro rispetto al suo creatore. Non è la sua vita, semmai la rappresenta tramite un sistema di filtri, di espedienti più o meno consapevoli, di strumenti e tecniche che l'autore abbraccia nel momento stesso in cui sceglie di scrivere (carta e penna, o computer e word processor), cantare (voce, chitarra, microfono), dipingere (tela, pennello, colori)... Anche come creazione dell'autore, l'opera è una costruzione, e come tale potrà essere più o meno indicativa delle idee e degli stati d'animo di chi l'ha edificata (a patto che il fruitore sappia leggerla in questo senso), ma certo non "vera" o "falsa".

Sotto un'ultima prospettiva, si potrebbe sì tornare a parlare di autenticità ("verità" e "falsità" espressiva di un'opera), ma con un significato nuovo e paradossale: tanto più un'opera sarà manifestamente costruita, tanto più metterà a nudo il suo essere macchinata (tanto più sarà "falsa" in senso tradizionale), tanto più renderà palese il suo status di opera, il suo perenne essere in bilico tra la costruzione operata dall'autore e la ricostruzione operata dal fruitore. Tanto più - in ultima analisi - sarà un'opera "vera".
Il vero è il falso e il falso è il vero, bella roba: sbarazziamoci di questo concetto, e andiamo avanti.


Contro la Profondità

Di celebrazioni degli Abissi dello Spirito se ne è già lette a sufficienza. Quello che raramente si è trovato scritto è che di Abissi dello Spirito, Voragini dell'Anima e profondità esistenziali assortite nelle opere d'arte non ce n'è manco mezza. A costo di risultare pedante, ribadirò: abissi, voragini e profondità ce le vediamo noi. Sono apparizioni, miraggi che nascono dalla nostra lettura e solo al suo interno sopravvivono.
Nessuna tela dipingerà mai il Vuoto dell'Esistenza: piuttosto, le sue forme e i suoi colori evocheranno immagini, che si associano ad altri concetti, ad altri momenti, e richiamano esperienze che ci paiono ritrarre sensazioni - che chiamiamo, un po' enfaticamente, il Vuoto dell'Esistenza. Ciò che l'opera traccia, assieme a noi, non è un abisso ma una rete, un labirinto di connessioni e rimandi che si dispiega su una superficie, la crea, la piega e la increspa dando - qua e là - l'impressione di una profondità.

Profondità che è però un ologramma, uno scherzo di luce: un'immagine mentale delineata dando un corpo unico a molte cellule distinte e indipendenti. Scorgiamo le tracce, e decretiamo l'esistenza del lupo: benissimo, e complimenti all'opera in grado di evocare un lupo così sibillino come il Vuoto dell'Esistenza, ma non dimentichiamo che ciò che stiamo vedendo sono solo tracce, corpuscoli che si connettono e risuonano fra loro.
Non dimentichiamo, soprattutto, che non necessariamente una rete è fatta di tracce che portano a un lupo: la rete potrebbe non parlare di nulla, oppure riferirsi a sé stessa. Potrebbe, insomma, rinunciare ai giochi di fumo e ai trucchi da prestigiatore, mettere in scena - con o senza orgoglio - la propria superficialità.

I libri di Queneau, di Borges, di Calvino, la musica di Bach e dei Tortoise, i quadri di Mondrian e le battaglie di Paolo Uccello sono labirinti della pura forma, esercizi di stile ben oltre l'essere privi di contenuto e di profondità. Non solo aprono finalmente le porte al regno delle superfici, ma pongono anche l'accento sulla fragilità, sulla leggerezza, della dicotomia forma/contenuto: di fronte a queste opere, diventa chiaro il castello di carte - non c'è significato che non sia significante di qualcos'altro, non c'è contenuto che non sia forma. Non c'è profondità che non sia, prima di tutto, superficie - e questa forse è la scoperta più profonda.


Contro l'Originalità

Derivativo. Puoi aver scritto il romanzo più avvincente del decennio, registrato la hit del secolo, dipinto la tua Sacra Famiglia con la maggior dedizione possibile, ma nella tua opera non c'è nulla di nuovo, stai solo reinscenando il già visto: non meriti un posto nei libri di storia, né nei cataloghi delle mostre. E neppure tra le priorità di lettura (o ascolto, o quel che è) dell'appassionato, ormai più esigente e intransigente di qualsiasi critico.

La richiesta di originalità è un comodo stratagemma per gestire (anzi: negare) la molteplicità, farsi strada senza fatica in un turbinio di proposte molto vicine fra loro. Si individua un criterio sufficientemente solido ("chi è venuto prima"), si stabilisce che l'opera che meglio risponde a questo criterio è originale e le restanti sono copie e via, ecco operata quella selezione che pare essere lo scopo primario della critica. Tutto questo senza neppure la necessità di entrare in sintonia con le singole opere, di confrontarcisi, mettersi in discussione e cercare le chiavi di lettura a loro più adeguate. E che sarà mai, sono copie, non meritano certo una simile considerazione!

Il fantasma dell'originalità pesa sulla valutazione di molte carriere artistiche. A pochissimi è concesso di ripetersi: ai più è richiesto un continuo mutamento, un'evoluzione evidente ed incessante. Si dimentica però che non sempre un artista è soddisfatto della sua opera, non sempre ritiene di avere esaurito le possibilità di un dato linguaggio: può capitare che desideri, anziché imbarcarsi in un ulteriore rinnovamento, approfondire e perfezionare l'esplorazione di territori già sondati in precedenza. C'è la tendenza a liquidare sbrigativamente fasi di questo genere - in cui domina l'attenzione per i dettagli, la riflessione, la ricerca della compiutezza globale - per "stanche creative"; al contrario, ci si accontenta di poche innovazioni ad effetto inserite in strutture claudicanti per gridare al miracolo, al ritorno del genio. Spesso, la foga dell'originalità plateale e la scarsa pazienza fanno perdere di vista proprio gli episodi più maturi e compiuti della produzione di un autore (o di un filone).

La copia perfetta dovrebbe essere indistinguibile dall'originale, e dunque risultargli del tutto equivalente - non inferiore. Se così non è, quelle che chiamiamo copie non lo sono realmente, ma possiedono comunque tratti peculiari - tratti originali. La nostra impressione negativa deriverebbe allora anche dall'incapacità di coglierli: cerchiamo di applicare, tali e quali, le chiavi di lettura che funzionano con ciò che già conosciamo, e davanti alla loro scarsa efficacia riteniamo che siano le "copie" ad essere sbiadite e poco intense, piuttosto che le nostre chiavi inadeguate. Siamo portati a credere che due opere in territori molto vicini debbano per forza scommettere sulle stesse strategie, ma non è affatto scontato che sia così: l'una potrebbe mettere al centro elementi e sensazioni che l'altra lascia in secondo piano, e viceversa.

Resta comprensibile, comunque, una certa ricerca di nuovi stimoli da parte del fruitore. Alla milleunesima riproposizione di idee tutto sommato simili, chiunque sarebbe sopraffatto dalla noia - a meno di passione sviscerata o capacità di sopportazione eccezionali. Più che le date di realizzazione delle opere, però, incide su questo l'ordine in cui si entra a contatto con esse, il proprio percorso personale. Va considerato, peraltro, che buona parte della sensazione che si prova al cospetto dell'originale ("Ah, questa sì che è un'altra cosa!") nasce dalla consapevolezza di essere di fronte al capostipite, all'unico e inimitabile - pura autosuggestione, insomma.

Se permutando l'ordine delle opere l'originale diventa la copia, se ogni copia è o indistinguibile dall'originale, o sufficientemente distante da essere originale a sua volta, le differenze tra originale e copia svaniscono, i due concetti collassano. Lasciamoceli alle spalle, e procediamo.


Contro la Storia

Ho sfruttato, sopra, le immagini di rete e percorso personale. Queste nozioni si contrappongono, oggi più che mai, alla concezione lineare, univoca della storia che domina le impostazioni tradizionali.

Filesharing e ristampe, libri, siti e riviste - accanto a musei e biblioteche - rendono possibile ad ogni appassionato di calarsi nell'arte seguendo le linee che preferisce, ripescando a destra e a manca tra le opere contemporanee e quelle degli anni che furono. Il vincolo una volta obbligato -sono un giovane degli anni Settanta - ascolto la musica degli anni Settanta - è oggi spezzato da una libertà di scelta che a molti suona come anarchia totale.
Tanto l'ascoltatore quanto l'artista e il critico vivono in un mondo in cui l'intero passato è accessibile, non solo quello nelle immediate vicinanze: influenze ed infatuazioni somigliano qui più a zigzag o ragnatele che a frecce chiaramente direzionate.

D'altra parte, la storia mostra costantemente il suo carattere dinamico e multisfaccettato: paese che vai, storia che trovi, si potrebbe ironizzare, giusto per non estremizzare in dipartimento che vai, giornale che vai, ecc. Ancora di più, la visione della storia muta continuamente col suo scorrere: fenomeni di revisione, rivalutazione, ridimensionamento sono una presenza immancabile di ogni periodo. Si può sostenere che, prima ancora che il tempo passato, la storia incarni quello in cui è scritta.
Quando un'opera o un movimento vengono "rivalutate", piuttosto che accanirsi contro chi fino ad allora non le aveva considerate ci si dovrebbe domandare: perché le stiamo rivalutando proprio adesso? Perché a rivalutare sono determinati soggetti e non altri? Quali sono i pilastri su cui si fondano le nostre attuali concezioni, e cosa ci impediscono di vedere nel momento in cui mostrano le meraviglie che prima ci eravamo persi?

La mancanza di rispetto nei confronti della storia è il sistema immunitario che le impedisce di fossilizzarsi e di prendersi troppo sul serio. Revisionismi, recupero in chiave nostalgica, ironica, provocatoria di stili e simbologie identificate col "male assoluto" (dal nazismo al manierismo, dal gotico al progressive rock) ricordano che è esistito un tempo in cui la logica era invertita rispetto a oggi, a dimostrazione che idee e fenomeni vivono di contraddizioni e fascinazioni complesse, non di piatte dicotomie bene/male, giusto/sbagliato in cui quelli che oggi chiamiamo errori del passato appaiono come frutto di isteria collettiva o deplovervoli momenti di idiozia.
Sono osteggiati anche gli atteggiamenti iconoclasti come l'irriverenza verso i grandi nomi o il disconoscimento di quelle che sono sempre considerate le tappe fondamentali della storia dell'arte. Simili eresie però assicurano che nessun traguardo sia "dato per buono" una volta per tutte, ma la coscienza critica e creativa resti sempre protagonista di ogni approccio all'arte. Permettono il germogliare di nuove associazioni di idee, letture trasversali e in controtendenza: anziché cancellare quanto già consolidato, queste vanno ad arricchirlo, formando un panorama che prevede molte alternative anziché plagiare con un unica verità granitica che non lascia spazio alla riflessione.

La storia è un concetto pericoloso, assolutista: rischia di nascondere la complessità e la sostanziale arbitrarietà del flusso temporale. Spacciando gli effetti come banali corollari delle cause, valorizzando esclusivamente punti di partenza e punti di arrivo, nega l'importanza e la molteplicità dei tragitti che dagli uni portano agli altri e, implicitamente, li determinano come eventi, rilevanti e riconoscibili.
La letteratura contemporanea rinuncia alla linearità per ammettere una pluralità di visioni; similmente, la storia monolitica implode, si frattura in tante storie. Percorsi intercorrelati e in parziale contraddizione che formano una rete in perenne mutamento, in grado di render conto - ora tramite l'uno, ora tramite l'altro - della vasta gamma di fenomeni che costituiscono l'arte e i suoi rapporti. Non per questo diventa impossibile l'emersione di alcuni tratti generali, analizzabili anche secondo logiche lineari vecchio stile, ma queste descrizioni non vanno confuse con l'intero panorama: sono tasselli al pari degli altri, parziali e limitati.


Contro l'Avanguardia

Il termine "avanguardia" è entrato nella critica artistica col primo Novecento. Oggi il concetto è associato soprattutto al periodo modernista, caratterizzato da una ricerca della rottura col passato in favore di un rinnovamento radicale. Le massime espressioni in architettura e in musica di questa estetica - stile internazionale e dodecafonia - proponevano un sostanziale rifiuto di ogni fronzolo e rapporto col contesto, in funzione di strutture rigide, universali, razionali.
Critici e storici concordano nel ritenere il modernismo terminato con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale: di lì a poco, avrebbe preso il via la tendenza del postmoderno, meno utopista ed intransigente. Ancora oggi, però, si ricorre alla categoria di avanguardia anche per indicare alcune espressioni artistiche: questo utilizzo è inappropriato.

Ciò a cui ci riferiamo oggi come avant- è molto lontano dalle premesse culturali delle avanguardie storiche. La sperimentazione contemporanea mira a provocare, ricontestualizzare, ricerca l'ostico ma senza rottura col passato: non tenta di scandire un prima e un dopo o direzionare gli sviluppi futuri. Non risponde più, insomma, a un uso metaforico del termine militare - un drappello di esagitati che parte in esplorazione di nuove strade, poi percorribili da un intero esercito.
Se lo scopo dell'avanguardia primo-novecentesca era elaborare nuovi linguaggi senza curarsi eccessivamente del loro perfezionamento espressivo (ci avrebbero poi pensato gli artisti ordinari), è sempre più vero che l'avanguardia contemporanea non inventa, ma si inserisce in una tradizione ben consolidata: nonostante le posture e gli alti proclami, è una forma implicita di manierismo. Un manierismo che, però, continua a disinteressarsi della compiutezza formale, nascondendosi dietro la maschera della presunta ricerca, rincorrendo la difficoltà e talvolta l'intellettualismo spacciando il caos per complessità, il come viene viene per espressione dello Spirito, la scarsa cura per la realizzazione come interesse e predominio dell'Idea.

Sono invece tacciate di manierismo molte opere esplicitamente pop, nelle quali l'attenzione alla costruzione e, talvolta, anche la ricerca di nuove forme sono certamente maggiori. Proprio in questi casi, convivono accuse inconsistenti di facilità e inespressività: scambiando per banale tutto ciò che non si presenta ostico, non ci si accorge di pretendere dall'opera pop molto più che da quella avant. Alla canzone pop, per esempio, si richiede di essere immediata, contagiosa ma in modo non troppo plateale; si esige anche che ogni suo istante sia assolutamente necessario, mentre nel caso di lavori avanguardistici lungaggini e sbavature sono tranquillamente perdonate. Non tutte le opere pop rispondono effettivamente a queste richieste, ma molte possiedono lo stesso un grande potenziale espressivo, che un po' di pazienza e dedizione svelerebbero assieme ad architetture, a conti fatti, decisamente complesse e raffinate.

All'avanguardia come rottura si sostituisce una pseudo-avanguardia perfettamente inserita nella continuità; all'avanguardia come ricerca una forma comoda e subdola di maniera. C'è una terza caratterizzazione dell'avanguardia primo-novecentesca, ed è quella trattaggiata da Umberto Eco con la nozione di apertura.
Secondo Eco, tanto più un'opera è "aperta" quanto più è inscindibile dall'apporto interpretativo del fruitore. Un'opera aperta - un'opera di avanguardia - non comunica un significato univoco, ma richiede al contrario di essere completata dalla riflessione del lettore, che è spinto ad compiere sponte sua un cambiamento di paradigma nella sua visione artistica per potervisi rapportare in modo produttivo.
Guardando alle opere più celebri etichettate come avanguardia, sia fra quelle storiche che fra le più recenti, ci si accorge che per ognuna di esse esiste una vulgata, una chiave di lettura consolidata che ci informa del significato corretto da attribuire alle varie 4'33'', L.H.O.Q., La trahison des images. Quelle che nascono come opere aperte entrano nella cultura già completate e richiuse: per alcune di esse, l'imponenza del lavoro di "chiusura" rispetto al materiale che costituisce l'opera fa sì che neppure sia necessario il confronto diretto con essa - per capirla basta averne letto o sentito parlare, non serve essersela ritrovata davanti.

Al contrario, proprio per le opere che da subito si presentano come chiuse può essere necessario un impegno consistente da parte del fruitore, che deve riaprirle a sufficienza per poterci entrare, stabilire un contatto emotivo con loro e renderle parte integrante della propria vita. È il caso, già discusso, di molte opere pop, ma anche delle cosidette letture devianti, che danno valore a oggetti sulla base di schemi imprevisti. Sempre Eco è maestro in quest'arte, e ne da esempio nel romanzo Il Pendolo di Foucault (dove l'oggetto di lettura deviante è, a seconda dei gusti, un appunto semicancellato o l'intera storia umana), ma soprattutto nel divertentissimo My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni, che rilegge I promessi sposi come sequel, ad opera di Joyce, del Finnegans Wake.

Se l'opera aperta è assorbita dalla cultura e presentata come chiusa, se l'opera chiusa ha bisogno di essere riaperta per essere assimilata, anche l'ultima accezione del termine "avanguardia" finisce per crollare. La possibilità di letture devianti, poi, suggerisce una strategia di attacco all'ultimo caposaldo dell'Arte con la "a" maiuscola: l'opera.


Contro l'Opera

Una rapida carrellata di stili e movimenti del secolo scorso: dada, collage, sampling, remix, situazionismo, happening, arte autodistruttiva, found sounds. Tutti minano, per un motivo o per l'altro, le fondamenta del concetto di opera, il cui mito però continua placidamente a prosperare, nella forma più estrema che la vorrebbe eterna, indivisibile, immodificabile, irriproducibile.

In alcuni ambiti artistici consolidati, comunque, il concetto di opera è particolarmente sfumato, e salva sé stesso solo centuplicandosi. Nella musica classica spartito, esecuzione, eventuali trascrizioni sono tutte considerate opere a sé, seppur evidentemente collegate. Nonostante alle esecuzioni sia conferito lo status di opera, la libertà concessa è limitata dal vincolo di fedeltà allo spartito: sono permessi cambiamenti minimi dell'organico esecutivo e (quel che è centrale) interpretazioni personali che tocchino la dinamica, le accentazioni, le durate. Eliminare parti e modificare note sono invece tabù assoluti, e anche la revisione radicale del mood dei pezzi è considerata in odore di eresia.

Registrazioni e riproduzioni rendono la questione ancora più spinosa: mentre in alcuni settori (la musica pop, la letteratura, il cinema, il design) la copia riprodotta è considerata l'opera nella sua forma più pura, in altri (la musica classica, la pittura, il teatro) assume valore solo come testimonianza dell'opera vera e propria (l'esecuzione, il quadro, la recita).

Non solo l'oggetto da considerare opera muta e si moltiplica nei diversi ambiti artistici: l'opera (anche una singola opera!) muta nel tempo e in base ai contesti. Questo è vero per la musica classica, in cui registrazioni distanti qualche decennio mostrano differenze di gusto molto pronunciate e di certo più impressionanti che quello che conseguirebbe dall'infrazione moderata di qualche tabù del genere (per esempio, la soppressione di un paio di battute). Ma è vero anche per i classici letterari stranieri, che appaiono nella nostra lingua in traduzioni diverse che testimoniano l'evoluzione degli stili e dei gusti.
Per non parlare delle enormi differenze percettive indotte dal contesto di fruizione. Un film al cinema, un film in TV interrotto dalla pubblicità, un film in dvx visto in treno sul proprio laptop sono certamente esperienze diverse. Allo stesso modo, la collocazione e l'illuminazione di un dipinto in un museo influiscono molto sugli aspetti che ne vengono evidenziati; Duchamp ha addirittura mostrato che il semplice fatto che un oggetto sia o non sia in un museo è in grado di renderlo opera o meno!

Se l'opera forma un tuttuno col contesto, se si modifica, può essere riprodotta e addirittura spezzettata e ricomposta per formare nuove opere, la sua sacralità viene meno. L'opera diventa misero testo, materia poco più che grezza, altamente reattiva, aperta a molti utilizzi. Misero testo? Quante porte si aprono di colpo con questo cambiamento di prospettiva! Sinfonie finalmente libere da tappeti di violini, sborodolataggini romantiche secondi movimenti soporiferi; battute teatrali che possono essere modificate senza far torto a nessuno; album musicali che tornano ad essere visti come uno dei tanti modi possibili di raccogliere certe canzoni, ascoltabili, godibili, recensibili di per sé, senza preoccuparsi di tracklist, riempitivi che penalizzano il risultato globale e altre manie masochiste figlie dell'opera che va presa così com'è.

Con la pesantezza dell'opera che si trasforma nelle in un testo scintillante, pietra filosofale dalle mille possibilità, si completa questa opera al nero in miniatura. Si ritorna a casa non con oro e soluzioni facili (per allungare la vita, o fare semplicemente buona critica), ma con qualche certezza in meno. E, spero, con qualche spunto, tra cui la scommessa di un rapporto con l'arte meno serioso, basato su presupposti diversi da quelli che sono stati bersaglio di questi otto paragrafi.
Non è necessario, però, buttare nel cestino qualsiasi termine li rievochi. Tutto sommato, quelli presi di mira sono concetti utili, perfino illuminanti se utilizzati con cognizione di causa: strumenti che si può scegliere di utilizzare o meno, a seconda delle esigenze del caso. Con la consapevolezza dei loro limiti e dell'esistenza di altre possibilità. In fin dei conti, si tratta solo di prenderli con un po' di leggerezza, con la lettera minuscola...