MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


30.9.06

Ultimi ascolti (23 settembre - 6 ottobre)

Shylock: Gialorgues (1976) 5,5/10
Marillion: Script for a Jester's Tears (1983) 7/10
Marillion: Misplaced Childhood (1985) 7,5/10 (R)
Marillion: Brave (1994) 6,5/10 (R)

Pink Floyd: Animals (1977) 9/10 (R)
La riscoperta della settimana. Avevo sempre snobbato "Animals" come album un po' prolisso e stanco, monopolizzato in negativo dalla megalomania di Waters. Invece ho trovato un disco dimesso, meno sfarzoso del precedente e meno epico del successivo (che peraltro non amo particolarmente). E soprattutto dei pezzi strepitosi, con una band al massimo della forma e alla ricerca di nuove soluzioni, dall'arpeggio bislacco di "Dogs" alla chitarra sincopata di "Pigs", la cui eccezionale melodia e' tenuta dal basso. Paradossalmente, a dispetto del ricordo che ne avevo, questo disco mi ha stregato per la sua umilta' e sobrieta'. Cosi', su due piedi, direi che e' diventato il mio preferito della loro intera produzione.

The Postman Syndrome: Terraforming (2002) 8,5/10 (R)

Day Without Dawn: [omonimo, EP] (2006) 5,5/10 (R)
Riponevo molte speranze in questo primo EP dei reduci dei Postman Syndrome, ma non c'e' niente da fare, anche a distanza di mesi non mi convince, e la delusione resta tale. L'eclettismo e il brio dell'eccezionale "Terraforming", disco da scoprire - una delle vette dell'alternative metal degli ultimi anni, sono andati a farsi benedire: restano solo l'ambizione e la passione per il progressive e l'alternative rock. Ne esce un mediocre disco alternative rock, senza quasi piu' accenni metal, decisamente prolisso, stucchevole, pomposo e povero di idee. Ascoltabilissimo, ma piuttosto noioso. Non capisco come facciano i fan a ritenersi insoddisfatti solo per la sua brevità.

Zero Hour: The Towers of Avarice (2001) 7/10 (R)
Gojira: From Mars to Sirius (2005) 6,5/10 (R)
Phish: Round Room (2002) 6,5/10 (R)
Bastro: Sing the Troubled Beast (1990) 7/10 (R)

Maximillian Colby: Discography [Compilation] (2002) 7,5/10 (R)
Non amo utilizzare l'aggettivo "seminale", ma per questa raccolta di tutti i 7'' e 12'' dei Maximillian Colby, realizzati nei primi anni 90, davvero non posso evitarlo. Math-rock raggelante dal forte impianto noise, fatto di droni, micro-temi che ritornano e improvvise esplosioni tanto furiose quanto contenute, ingabbiate. Ancora piu' efferati e lucidi degli Shellac, forse perché la componente caotica e' pressoche' nulla e ogni pezzo e' formalmente ordinatissimo. Le emozioni sono centellinate, eppure il tutto ha l'aria terribilmente sentita e drammatica. Se, tra gli incastri della batteria e gli arpeggi dissonanti e i muri di chitarra di sfondo, e' il basso a farla da padrone coi suoi giri obliqui, ossessivi e incalzanti, è però la voce a risultare determinante all'apice della tensione, con uno scream da brivido. Peccato per la qualita' audio. In ogni caso, uno dei migliori risultati del math pre-Don Caballero che abbia sentito fin ora.

Glider: One For All Time (2006) 7/10 (R)
Mono: Under the Pipal Tree (2001) 7/10 (R)
Bark Psychosis: Hex (1994) 7,5/10 (R)
Disco Inferno: D.I. Go Pop (1994) 8,5/10 (R)
Dirty Three: Horse Stories (1996) 7,5/10 (R)
Dirty Three: Ocean Songs (1998) 7/10 (R)
The Chameleons: Script of the Bridge (1983) 7,5/10 (R)
The Chameleons: Strange Times (1986) 7/10
The Fall: Dragnet (1979) 7/10 (R)
The Pop Group: Y (1979) 8,5/10 (R)
The Pop Group: For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder? (1980) 7/10
Feelies: Crazy Rhythms (1980) 9/10 (R)
Feelies: The Good Earth (1986) 6/10

R.E.M.: Chronic Town [EP] (1982) 7,5/10
R.E.M.: Murmur (1983) 7/10
Belli questi primi dischi dei REM: il loro stile melodico è già percepibile, e non mi conquista più di tanto, ma i pezzi sono molto diretti, le chitarre sferraglianti e sparate sugli acuti, la batteria un po' scomposta. Dei Feelies ci sono i suoni, ma non lo sperimentalismo: tutto molto semplice, pure ingenuo, ma immediato e accattivante. I pezzi eccellenti non si contano, credo che il mio apprezzamento crescerà, abituandomi alle melodie.

Clap Your Hands Say Yeah: [omonimo] (2005) 7/10
Bloc Party: Silent Alarm (2005) 8/10 (R)
New Order: Movement (1981) 6,5/10 (R)
New Order: Power, Corruption and Lies (1983) 6,5/10 (R)
New Order: Low-Life (1985) 7/10 (R)
New Order: Substance (1987) 9/10 (R)

New Order: Technique (1989) 8/10
Finalmente ho trovato un album dei New Order che mi convinca appieno, dopo tante mezze soddisfazioni. A mio discapito c'è da dire che è il disco più truzzo e tamarro della loro carriera, realizzato sotto l'influenza delle peggio droghe sintetiche e gli influssi della scena house di Ibiza. Però questo disco riassume proprio tutto quello che più amo della band: melodie immediate, allegre e solo velatamente malinconiche, chitarra ritmica sferragliante sovrastata da un basso da paura (ormai unici ricordo dell'era Ian Curtis), drum machine Roland 808 a manetta e un "tiro" della madonna. "All the Way", "Round & Round", "Mr. Disco" e "Vanishing Point" sono state in loop pesantissimo su winamp e lettore CD in queste due settimane.

New Order: Get Ready (2001) 5/10
Modest Mouse: Interstate 8 [EP] (1996) 7,5/10
Shakira: Laundry Service (2001) 6/10
SubSonica: Microchip Emozionale (2000) 7,5/10 (R)
SubSonica: Terrestre (2005) 5/10 (R)

Amari: Grand Master Mogol (2005) 5/10 (R)
Ottime basi: originali, curate, dinamiche, bei suoni. Un po' povere di mordente ma le ho apprezzate molto lo stesso. Le parti vocali sono però pessime: stucchevole quando va bene, la voce principale è una spanna sotto ai Gemelli DiVersi in quanto a sdolcinatezza e banalità. Anche nel complesso, tra coretti femminili e seconde voci anche più piatte della prima, il tutto mi risulta noioso se non irritante. I testi, poi, requisito numero uno perché io apprezzi canzoni in italiano, sono inconsistenti al massimo: molto semplicemente gli Amari non hanno niente da dire, e il nulla che hanno da raccontare lo raccontano male. Quando stanno zitti, infatti, è un gran guadagno per la musica.

Perturbazione: In Circolo (2002) 7/10 (R)
Frankie Hi-NRG MC: Verba Manent (1992) 7,5/10
Sangue Misto: SxM (1994) 4/10
Vampire Rodents: Lullaby Land (1993) 6,5/10 (R)
Vampire Rodents: Clockseed (1995) 7/10
Clint Mansell: Requiem for a Dream O.S.T. (2000) 6,5/10 (R)

25.9.06

L'Italia...

23.9.06

The Stone Roses (For Dummies)

Continua la sequenza di compilation "introduttive" a questo o quell'altro gruppo. Ovviamente mi occupo solo di gruppi che adoro e conosco a fondo, e oggi tocca agli Stone Roses. Siccome sono meno noti di Peter Gabriel, forse richiedono una presentazione.

Manchster, fine anni '80. Sta per esplodere l'era dell'acid house, la seconda "summer of love". L'Haçienda è una delle discoteche più importanti dell'Inghilterra, i New Order imperano e tante band alle prime armi iniziano a ibridare i suoni della house e il rock, che sia il punk o il merseybeat dei genitori. Gli Stone Roses di Ian Brown e John Squire si erano formati nel 1984, ma le prime registrazioni sono dell'anno dopo. Pezzi ancora acerbi, quasi dark-punk, che sembrano preludere a tutto fuorché ai futuri sviluppi del loro sound. Sviluppi che non tardano a farsi vedere, perché nell'87 viene pubblicato il singolo "Sally Cinnamon", che mostra un cambiamento radicale: nessuna traccia della ruvidezza e dell'inquietudine di qualche anno prima, a farla da padrone sono la chitarra, distorta ma reminescente Byrds e una melodia limpida, immediata eppure in qualche modo malinconica, stanca. Da lì solo allori (e successo) per qualche anno: il gruppo si pone (o viene posto) alla testa di quella scena Madchester da cui nasceranno il britpop di Blur e Oasis come il big beat dei Chemical Brothers. Dance, pop e rock uniti in un'unica cosa, con la chitarra effettatissima di John Squire che cede il passo ad arpeggi solari e cristallini e il combo basso-batteria che innesta nel pop-rock dei Beatles il dinamismo della disco, del funky e della house. Il loro primo, omonimo album è il monumento di quell'epoca, e "Elephant Stone" ne è la gemma più splendente.
Dopo un paio d'anni passati tra festival, concerti vari e sporadiche apparizioni televisive, i quattro scompaiono, per riapparire nel '94 con il secondo, attesissimo, "Second Coming". Una delusione a detta di molti, che retrocede verso un hard-rock zeppeliniano fino al midollo ("Tears" è un plagio spudorato di "Stairway to Heaven") a cui manca brillantezza e inventiva. I brani migliori sono quelli che più si distaccano da questo cliché, uno su tutti "Begging You", ovvero i Chemical Brothers ante litteram. Il disco è un mezzo flop, John Squire è ormai fritto dalle droghe più disparate e il gruppo si scioglie, ognuno per la sua strada. Brutta fine per una band indimenticabile.

Nella compila ho inserito, oltre a molte canzoni del primo album, anche varie "chicche" prese dalle tre raccolte di singoli, b-side, demo e rarità assortite che, in assenza di materiale nuovo, la casa discografica ha pensato bene di pubblicare. Credo davvero sia il meglio del meglio della band, e un ritratto abbastanza fedele, rappresentativo e soprattutto godibile.

1. So Young (da "Garage Flower")
2. Tradjic Roundabout (da "Garage Flower")
3. I Wanna be Adored (da "Garage Flower")
4. Sally Cinnamon (da "The Complete Stone Roses")
5. Elephant Stone (da "Turns into Stone")
6. The Hardest Thing in the World (da "Turns into Stone")
7. Made of Stone (da "The Stone Roses")
8. Going Down ("Turns into Stone")
9. She Bangs the Drums (da "The Stone Roses")
10. Mersey Paradise (da "Turns into Stone")
11. I Wanna be Adored (da "The Stone Roses")
12. (Song for My) Sugar Spun Sister (da "The Stone Roses)
13. This is the One (da "The Stone Roses")
14. I am the Resurrection (da "The Stone Roses")
15. Fools Gold (da "Turns into Stone")
16. What the World is Waiting For (da "The Complete Stone Roses")
17. Begging You (da "Second Coming")
18. Tightrope (da "Second Coming")
19. Tears (da "Second Coming")

The Stone Roses.rar

Un film, ogni tanto...

"Interiors", di Woody Allen, è un capolavoro. Uno di quei film in cui non succede niente, ma a cui fa ugualmente fatica a star dietro. Sorprende la quantità di personaggi: otto. E basta, in tutto il film si vedono solo loro. Di questi, una buona metà è essenzialmente tappezzeria, visto che il film si concentra principalmente su due delle sorelle ritratte sulla locandina e sulla madre, lasciando agli altri il ruolo di "variabili aggiuntive" del sistema.
L'analisi psicologica e relazionale è attenta, profonda e ottimamente costruita. L'ora e mezza di film è sostanzialmente riempita da dialoghi, ma ancor più delle parole colpiscono i silenzi. Le cose non dette, le opinioni e i disagi tenuti per sé, quelli raccontati a un confidente in un modo e nascosti, negati al diretto interessato. Woody Allen mette ancora una volta in scena le sue paranoie e idiosincrasie, ma lo fa creando dei personaggi a tutto tondo, di cui puoi percepire la personalità. E' di gran lunga il suo film più "serio".
L'aspetto visivo rappresenta un elemento assolutamente fondamentale. Quasi tutto il film è girato al chiuso, in casa (negli "Interni"). Le poche scene all'aperto sono dominate dal cielo coperto e da una spiaggia vuota sull'oceano in burrasca. I colori sono tutti tra i grigi, i beige e le terre (nessuna eccezione se non per i vestiti della sposa del padre). Ne risultano scene e personaggi claustrofobici, freddi (freddissimi!) e, più che malinconici, senza possibilità di comunicare.

Credo, con questo, di aver visto tutti i film di Woody Allen. Questo, ovviamente, non vuol dire che me li ricordi: alcuni li ho visti a sei anni o poco più! Visto che li ho in DVD, proseguirò nell'opera di riscoperta.

22.9.06

Ascolti della settimana (15-22 settembre)

Solo musica un'altra volta, e chiedo scusa, ma non è che abbia fatto molto altro se non studiare (in modalità negro), questa settimana. In compenso ho trovato un bel po' di dischi fighi, che mi hanno sorpreso e probabilmente mi spingeranno a esplorare nuovi settori e a rispolverarne di vecchi.

Supersister: Present from Nancy (1970) 7,5/10
Come sia possibile che questi olandesi, nel 1970, abbiano pubblicato un album che trasuda Canterbury da ogni poro mi risulta del tutto oscuro. I primi dischi a canonizzare lo stile sono proprio di quell'anno, ed è davvero bizzarro che, tutto sommato indipendentemente (anche se certo avranno ascoltato i primi Soft Machine, il primo disco dei Caravan, Kevin Ayers), i Supersister siano arrivati a risultati così simili. E altrettanto validi, fantasiosi e personali: i Supersister si collocano nella vena del jazz-rock strumentale, con sperimentazioni free-form vicine a quelle degli Egg, senza però mai perdere di vista l'impatto melodico. Basso iper-saturo alla Hugh Hopper, metri improbabili e stranianti e le tastiere che assumono un ruolo di tutto rispetto in un genere che solitamente le pone in secondo piano. Sound impeccabile, dinamico e vitale, brani estremamente a fuoco e un po' di quella sano spirito stralunato e giocoso della psichedelia inglese. Piacevolissimo, e anche qualcosa di più.

Shadowfax: Watercourse Way (1976) 7/10 (R)

Atoll: L'Araignée-Mal (1975) 8/10
Dopo un primo album ancora ingenuo, mal prodotto e ancorato agli standard, i francesi Atoll pubblicano nel 1975 un capolavoro del tutto inatteso. Nell'anno che intercorre tra i due lavori, devono aver consumato i dischi della Mahavishnu Orchestra, perche' il loro progressive sinfonico si e' magicamente tramutato in una macchina jazz-rock dalla carica propulsiva devastante. Alle atmosfere e le melodie tipiche del progressive di derivazione genesisiana si fondono dunque jam furiose di chitarra e violino, possenti groove di basso, tastiere assolutamente funky e una batteria incontenibile ed ipercinetica. Mossa azzardata e potenzialmente pericolosa, ma il risultato e' sorprendente e evita del tutto la pomposita' e l'autoreferenzialita' che una formula del genere sembrerebbe destinata a portare con se. Spicca la suite "L'Araignée-Mal", ma ancora più strepitosa è la versione live (forse una bonus track) di "Cazotte no. 1", con fiati free e travolgenti vortici di improvvisazione. Davvero uno dei migliori dischi progressive che abbia sentito.

Jon Hasell & Brian Eno: Fourth World Volume 1: Possibile Musics (1980) 7,5/10 (R)

Brian Eno & David Byrne: My Life in the Bush of Ghosts (1981) 9/10
Mai amati più di tanto i Talking Heads, ma in questo disco tutto quello che riesco ad apprezzare di loro è portato all'ennesima potenza. Tra groove di basso iper-funkeggianti, loop ritmici, sample vocali e onnipresenti accenti etnici Byrne e Eno tiran fuori davvero il meglio della loro arte. E in "Regiment" ci si mette pure il buon Fripp... Sarà un disco fondamentale, pietra d'angolo della world music e tutto quanto, ma è soprattutto una raccolta coesissima di pezzi affascinanti, coinvolgenti e meravigliosi.

Jackie-O Motherfucker: Flags of the Sacred Harp (2005) 7/10 (R)
Ho scaricato anche altri loro dischi, che non ho ancora sentito, ma questo mi è piaciuto assai e lo sto ascoltando da due settimane. Mi ricorda molto i Godspeed You Black Emperor!, e mi pare di capire che in qualche modo le due formazioni siano legate. Folk dilatato, svuotato, trasformato nella descrizione di malinconiche giornate di pioggia passate a guardar fuori dalla finestra e perdersi via col pensiero. E i deliri psichedelico/rumoristi in cui i brani indulgono sono la colonna sonora perfetta per questi trip autunnali.

Isis: In the Absence of Truth (2006) 7/10 (R)

Kayo Dot: Choirs of the Eye (2001) 8,5/10
L'ultimo "Dowsing Anemone with Copper Tongue" è un gran bel disco, "Leaving Your Body Map" è ottimo, ma questo "Choirs of the Eye" è proprio un capolavoro. Volendo fare uno di quei bei paragoni che lasciano il tempo che trovano, dirò che è così che avrebbero suonato i Talk Talk se avessero fatto metal. "Metal" per modo di dire, poi, visto che qua è tutto talmente dilatato e arricchito di tessiture che le (rare) possenti schitarrate suonano al rallentatore, e il growl sussurrato prende un aspetto mai così umano. Pezzi suggestivi, carichi di costernazione, del tutto privi di struttura. Bene o male è post-rock (post-metal) ma in maniera del tutto originale anche rispetto agli altri artisti che abbiano fuso sonorità pesanti e dilatazioni "post". "Before you play two notes learn how to play one note - and don't play one note unless you've got a reason to play it".

Time of Orchids: Sarcast While (2005) 7,5/10 (R)
Una delle cose più strampalate che mi sia mai capitato di ascoltare. Per mesi e decine di ascolti mi è sembrato qualcosa di totalmente sconnesso: spazzcore suonato con la chitarra acustica (con l'ampli al massimo per far "sgranare" il suono), dissonanze, synth e cori eterei, melodie e arpeggi da Genesis o Yes, onnipresenti echi dei primi King Crimson. Ora, pian piano, inizio ad abituarmici, a intuirne e comprenderne la struttura. Probabilmente uno dei pochi dischi davvero "progressive rock" di questi anni, e sicuramente appartenente alla categoria di album il cui interesse risiede già nel "percorso di avvicinamento" che richiedono. Originalissimo e impenetrabile.

A Certain Ratio: To Each... (1981) 8,5/10
Andavo alla ricerca degli ispiratori del sound chitarristico tanto in voga tra Bloc Party e amici, e mi sono imbattuto in questo disco clamoroso che mi ha lasciato folgorato. In un ibrido irrancidito tra Pop Group, Joy Division e Tuxedomoon, basso funk, ritmi dispari e meccanici, litanie alla Ian Curtis e fraseggi trombettistici free creano atmosfere da olocausto post-atomico, più industriali dell'industrial, più dark del dark. E con un "tiro" ritmico assolutamente irresistibile. Dritto tra i miei preferiti della sua decade.

Gang of Four: Entertainment! (1979) 8/10
Orange Juice: The Glasgow School (compilation, 2005) 7,5/10
The Complete Stone Roses (compilation, 1995) 7/10

19.9.06

Pietro Gabriele for Dummies

Su Ondarock è saltato fuori un thread carino, che invita a scegliere un artista a cui si tiene molto e a cercare di realizzarne una compilation rappresentativa del percorso artistico, una sorta di "introduzione" alla sua musica. Tutto questo stando negli 80 minuti di un CD.
Ci sto provando con vari gruppi, per intanto posto quella dedicata a Peter Gabriel:

1. Solsbury Hill
2. Here Comes the Flood
3. White Shadow
4. Mother of Violence
5. I Don't Remember
6. Games without Frontiers
7. Intruder
8. The Family and the Fishing Net
9. The Rhythm of the Heat
10. San Jacinto
11. Wallflower
13. Mercy Street
13. Red Rain
14. Blood of Eden

La potete trovare qui:
Peter_Gabriel.rar

15.9.06

Ascolti della sett... oh, beh, degli ultimi tempi

Riprendo il costume di pubblicare periodicamente le mie "playlist" con giudizi, commenti e informazioni su quello che ho ascoltato di recente. E' un po' che non lo faccio, ma non ho nessuna intenzione di fare un resoconto anche solo parziale di tutta la roba che ho sentito da più di un mese a questa parte. Mi limiterò agli ultimi giorni, sette o otto, boh.

In primis, ho riscoperto gli Yes. Conoscevo pochi dei loro album, giusto quelli del periodo "classico" e ne amavo davvero soltanto due ("Close to the Edge", forse il disco che indicherei come simbolo del progressive, e "Relayer"). In questo periodo, però, avevo voglia di musica allegra, solare anzi di più ancora, di quelle canzoni che già partono radiose, ma che a un certo punto si "aprono" ulteriormente in melodie strepitose che, se non ti rincuorano quelle, c'è davvero poco da fare. Ho allora rispolverato i bravi Yes e tentato di colmare la mia lacuna, scaricando vari altri dischi, anche delle fasi meno celebrate del gruppo, e riascoltando un po' quello che già avevo. Ne è emerso che degli album che avevo continuano a piacermi molto solo i due di cui sopra, mentre ho ricevuto piacevoli sorprese anche da qualche disco successivo, cosa di cui difficilmente avrei scommesso. Insomma:

Yes: Fragile (1971) 7/10 (R)
Yes: Close to the Edge (1972) 10/10 (R)
"And You and I" se la gioca con poche come canzone più emozionante che conosco.
Yes: Tales from Topographic Oceans (1972) 4/10 (R)
'Mmazza che palle. Faccio davvero fatica ad arrivare alla fine, non solo è di una noia mortale ma anche lo stile dei singoli componenti è fuori fuoco e sottotono. Si salva qualcosa qua e là, ma è totalmente perso in un mare di inutilità lungo quattro facciate di vinile. Un disco così annacquato è difficile trovarlo, ma tutto sommato è meglio perderlo.

Yes: Relayer (1974) 7,5/10 (R)
Album piuttosto sottovalutato, contiene invece due dei pezzi più interessanti e riusciti della carriera del gruppo, la suite iniziale "The Gates of Delirium" e la successiva "Sound Chaser". Wakeman non c'è più e non se ne sente davvero la mancanza, visto che il tocco jazzistico dello svizzero Patrick Moraz rende il disco estremamente equilibrato, vitale e di gusto. E' anche il disco più sperimentale della band, con sezioni che sconfinano nel jazz-rock e nella fusion e momenti di autentico (ma composto) delirio.

Yes: Going for the One (1977) 5/10
Il disco in se è proprio una mezza ciofeca, sovrapprodotto e con suoni ben oltre il kitsch. La versione rimasterizzata però aggiunge numerose bonus track, prevalentemente versioni di prova dei brani finali, che si rivelano spesso superiori al risultato definitivo: pezzi più scarni, suono più ruvido e vivo, maggiore impatto. "Parallels" diventa davvero una bella canzone.

Yes: Drama (1980) 7/10
Fuori Anderson, fuori di nuovo Wakeman, quel che resta della band recluta i due tizi dei Buggles e... Sorpresa! Ne viene fuori un bel disco progressive, lontano dal pop da classifica che si sarebbe potuto immaginare. I brani sono azzeccati, il gruppo da' il meglio di sé, il cantante imita spudoratamente Anderson ma riesce a non farlo rimpiangere. Il sound è più duro e ritmato del solito, qua e là la chitarra è in levare, il timbro delle tastiere si è un po' aggiornato. Peccato il sodalizio sia durato poco.

Yes: Big Generator (1987) 4,5/10
"Love Will Find a Way" è un gran bel pezzo. Sul resto stendiamo un pietoso velo.
Anderson, Bruford, Wakeman, Howe (1989) 6,5/10 (R)
I quattro esuli dagli Yes, in questo periodo guidati da Chris Squire e Trevor Rabin, pubblicano questo disco con Tony Levin al basso. Anderson sforna alcune delle sue migliori melodie, Bruford si diverte con la batteria elettronica e ne escono pezzi quasi synth-pop, con le tastiere assolutamente kitsch di Wakeman che per una volta fanno suonare il tutto quasi ironico. Sembra strano, ma è un bel disco.

Yes: The Ladder (1999) 6,5/10
L'ennesima reincarnazione degli Yes, questa volta col tastierista russo Igor Khoroshev, riscopre il progressive ma non rinuncia alle melodie immediate e accattivanti. Ancora una volta l'assenza di Wakeman giova alla band: Khoroshev più che di mettersi in mostra con assoli interminabili si preoccupa di cesellare atmosfere e rafforzare il suono, inserendo pure qualche elemento inaspettato come l'intro acid-house di "Face to Face". Pezzi forse non memorabili ma di sicura presa, i migliori "Homeworld" e "Face to Face", con quei temi che si fanno man mano più melodici che solo il miglior Jon Anderson sa creare.

Assieme agli Yes è tornata anche la voglia di ascoltare un po' di sano, vecchio prog. Non di quello arzigogolato e spigoloso, ma di quello melodico, piacevolmente pop e, perché no, moderatamente epico. La rivelazione che ne ho ricavato sono stati i Twelfth Night, gruppo inglese spesso associato all'ondata neo-prog di metà anni Ottanta, ma che in realtà ha davvero poco a che spartire con i vari Marillion, Pendragon e IQ. Piuttosto, affonda le radici del suo sound nella nascente dark-wave (Cure soprattutto) ma va a ripescare il melodismo e la teatralità dei Genesis e l'espressionismo, l'angoscia esistenziale di Peter Hammill. Ne risulta una formula originalissima, che non scade mai nell'emulazione del passato ma anzi crea uno stile nuovo, affascinante e toccante.

Twelfth Night: Smiling at Grief (1982) 6,5/10
E' un disco sostanzialmente dark-wave, che però già mostra notevoli tensioni verso il progressive, percepibili particolarmente nei brani lunghi. Sound non molto rifinito, manca di profondità, anche se le venature funk sono pregevoli. Alcuni pezzi saranno ripresi nel disco successivo con esiti sorprendenti.

Twelfth Night: Fact and Fiction (1982) 8,5/10
Capolavoro. Lo conosco da poco ma già rientra nella ristretta schiera di quei dischi che mi provocano sensazioni uniche. E' la rassegnazione il sentimento che domina questo disco. La disillusione, la consapevolezza che la Fine (non so di cosa, ma ha di certo la "f" maiuscola) è già scritta e non si può fare nulla per evitarla o modificarla. Rimane solo da osservarla, quasi con meraviglia, ammirandone la bellezza perversa e mortale. Non è la disperazione, ma qualcosa di più sfuggente e multisfaccettato che trapela dalla musica e dalla prova vocale strepitosa del cantante Geoff Mann, che non ha nulla da invidiare a Peter Gabriel o Peter Hammill in fatto di carisma, personalità e capacità espressiva. Una malinconia profondissima, interrotta da fugaci schiarite, la cui unica funzione sembra essere quelle di essere rimpiante in seguito, giusto per mantenere viva la malinconia stessa.
La musica orbita tutta attorno a questi lenti e inesorabili cambi di sfumatura, passaggi e crescendo che sfociano nelle già citate "aperture", prese in prestito dagli Yes ma in qualche modo precorritrici di quelle di Godspeed You Black Emperor! e Explosions in the Sky. Perno del sound, oltre alla voce, tanto versatile quanto carica e vibrante, sono le tastiere e il basso, il cui ruolo è però mediato non dal progressive ma dalla dark-wave. Così i tappeti di synth sono il tessuto stesso delle atmosfere, e sono le variazioni nei loro ricami a stabilire la direzione in cui andrà la musica: quasi sempre eterei, soffusi, talvolta senza modificare timbro iniziano a ricamare un tema in maggiore, e immediatamente inizia ad aleggiare un po' di speranza in mezzo a tanta desolazione. Il basso è invece sempre pulsante, rotondo e prominente, è lui a tenere il filo melodico dei pezzi, relegando la chitarra al compito di rifinire il tutto con delicati arpeggi aperti, salvo poi permettere un'inversione dei ruoli in occasione dei brevi e intensissimi assoli.
"We Are Sane", "Human being", "Fact and Fiction", "The Poet Sniffs a Flower", "Creepshow": canzoni memorabili che ogni amante del rock, progressivo o meno, dovrebbe ascoltare almeno una volta per poi restarne definitivamente stregato.

Twelfth Night: Live and Let Live (1984) 6/10

Nuovi e vecchi ascolti anche sul fronte "matematico": ho ascoltato qualche disco di quest'anno, con particolare attenzione all'Italia, ricevendone anche piacevoli sorprese.

Muddy World: Finery of the Storm (2006) 8/10
Questo disco sembra essere noto solo al popolo degli Ondarocker, almeno su rateyourmusic. Mi compiaccio di farne parte, perché questa è davvero una gemma di rara classe. Disco non solo originale nella sua fusione di math-rock, jazz-rock e suggestioni world, ma soprattutto piacevolissimo, delicato e caldo nonostante tutti gli spigoli che caratterizzano il genere, che solitamente trae parte del suo fascino proprio dalla freddezza che trasmette.

Sedia: The Even Times (2006) 6,5/10

Caboto: Hidden or Just Gone (2006) 7,5/10
Anche per questi, bolognesi, ringrazio Ondarock. Si potrebbero citare tanti nomi che molto probabilmente sono stati di spunto per la loro musica: Tortoise, June of '44, Gastr del Sol e, non ultimi, King Crimson e Soft Machine. Il risultato, però, è personalissimo e non può essere descritto con uno sterile elenco di nomi. "Hidden or Just Gone" è un disco vario, che alterna pezzi tenui, jazzati, a delirii sferraglianti, possenti groove di basso, fiati, wah-wah, tastiere cristalline, armonie orientali. Se capitano dal vivo in zona non me li lascio sfuggire.

Splatterpink: #3 (2001) 7,5/10 (R)
Bolognesi anche loro, praticamente introvabili sul p2p (mi son dovuto accontentare di mp3 a 128 kbps), gli Splatterpink assomigliano a una versione decisamente incazzata degli Zu. Basso poderosissimo, scimitarrate funk su cui si innesta un drumming violento e ipercinetico degno dei capiscuola NoMeansNo. Voce raschiante la cui funzione sembra quella di sporcare, infangare ulteriormente la musica, già scurita dagli scomposti fraseggi blues di sax e dalla chitarra, mixata bassa ma sempre ruvida e metallica. Maledizione, perché non riesco a trovare altro!?

Off Minor: The Heat Death of the Universe (2002) 7/10 (R)
Tre quinti dei Saetia, pionieri dello screamo, fondano nel 1999 gli Off Minor, per incanalare tutta la carica emotiva e la violenza della formazione in schemi al contempo più rigidi e più liberi. Più rigidi, perché le lame affilate della musica dei Saetia si trasformano in riff obliqui e geometrici, in pieno territorio math-rock con tutto ciò che l'epiteto comporta. Più liberi, perché l'approccio si avvicina al free-jazz, alla rabbia adolescenziale si sostituisce la lucida efferatezza degli Shellac, gli accordi si arricchiscono di sfumature e colori, settime, quinte. L'approdo "intellettuale" dello screamo.

Sul versante metallico poca roba, non è il periodo. Ancora non mi pronuncio sull'ultimo degli Isis e sui Red Sparowes, ma ho ascoltato abbastanza questi due:

Isis & Aereogramme: In the Fishtank 14 (2006) 7,5/10 (R)
Da quel che ho capito dando un'occhiata ai nomi coinvolti negli altri tredici capitoli della collana "In the Fishtank", l'idea fondante sembra quella di imbastire collaborazioni improbabili in area post-rock. Non so come siano gli altri dischi, ma se sono al livello di questo dovrò decisamente ascoltarne qualcuno. Il post-sludge degli Isis è ormai viratissimo verso il post-rock di scuola Mogwai/GYBE!/Eits, la pesantezza e la catarsi metallica si fa sempre più sapientemente dosata, posta all'apice di lenti e inarrestabili crescendo strumentali fatti di mutamenti atmosferici, nubi che si addensano e oscurano monti e valli sottostanti. L'impatto emotivo è fortissimo - "come al solito" si potrebbe dire - ma questa volta è il ruggito di Aaron Turner a devastare l'anima, ma il cantato pulito, quasi un belato, del cantante degli Aereogramme. L'effetto creato è molto diverso, la dimensione catartica scompare quasi del tutto (salvo essere concentrata nei quattro minuti di "Delial") e al suo posto si scopre l'insicurezza e l'impotenza, la sensazione di camminare perennemente sul ciglio di un burrone.

Mastodon: Blood Mountain (2006) 6,5/10 (R)
Niente da fare, "Blood Mountain" è una delusione. Un pezzo eccezionale ("Sleeping Giant") e tanti altri piuttosto belli, non così gratuitamente tecnici come si è detto ma certo meno carichi, fulminanti di quelli del capolavoro "Leviathan". Il disco non è che sia male, anche se non "fila" molto e nel complesso suona parecchio fuori fuoco, ma mi aspettavo molto, molto di più.

Mi è piaciuto tanto l'ultimo di Squarepusher, invece, che mi sembra metta finalmente a fuoco le idee abbozzate senza troppa chiarezza nel precedente "Ultravisitor". Ritmi spastici, epilettici, melodie da videogioco, basso e batteria all'insegna della fusion più sborona e synth ambient. E' un po' una tamarrata, ma gli è venuta proprio bene e si piazza dritta dritta tra i miei preferiti di quest'anno.
Squarepusher: Hello Everything (2006) 8/10

Ho poi riascoltato con più attenzione i due dischi nati dalla collaborazione live tra Four Tet e il batterista Steve Reid. Il secondo, in particolare, non invasivo ma stuzzicante e con lo strano potere di favorire la concentrazione, è perfetto per queste giornate di studio.

Kieran Hebden & Steve Reid: The Exchange Session, Vol. 1 (2006) 6,5/10
Kieran Hebden & Steve Reid: The Exchange Session, Vol. 2 (2006) 7/10

Infine, in una delle mie ormai consuete peregrinazioni attraverso wikipedia, mi sono informato sulle concelebrate e perclarissime (!) trifonie della mongolia orientale e ho scaricato una bella compilation, edita da World Network, in cui sono raccolti pezzi di numerosi artisti della repubblica russa di Tuva, che a quanto pare è la patria di gorgheggi, litanie e gargarismi di ogni tipo. Quel che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è che la maggior parte dei pezzi, oltre a essere assolutamente strabiliante sul piano tecnico-vocale - uno si domanda di continuo "e questo come diavolo fa a farlo?" - mi risulta pure gradevole nonostante l'orecchio poco allenato e la distanza culturale prima che geografica. Non sto a dare un voto, non saprei come valutare, ma ne consiglio senza dubbio l'ascolto, anche solo per restare ammutoliti di fronte alle incredibili potenzialità della voce umana.
Tuvinian Musicians: Chöömej - Throat Singing From The Center Of Asia (1999)

8.9.06

Dio c'è

Sisì, lui, il negro.

Parano'

E' un periodo di merda. No, lo so che lo dico sempre, ma questo e' proprio un periodo di merda. Ho la sensazione che tutto stia per crollarmi addosso e che in parte lo stia gia' facendo. Mi son reso conto che avrei dovuto fare una serie di cose, non le ho fatte e ora verranno a portare il conto. Letteralmente. Come le valanghe, partono piccole e se non ci stai attento si ingigantiscono lentamente. E arriveranno tutte assieme, perche' le disgrazie non vengono mai da sole.
Ok, e' un periodo di merda soprattutto perche' mi sto imparanoiando per tutto quello per cui mi sarei dovuto imparanoiare prima. Ma questa volta non sono paranoie assurde, no, sono concretissime porca eva. E sono pure nei cazzi con l'uni, porca eva. E' uno di quei periodi che vorrei saltare a pie' pari, via, e' andata come e' andata e non ci si pensa piu'. Non riesco manco a concentrarmi perche' sono ossessionato dalle mille pare - ripeto, non sono cagate esistenziali, sono soldi spesi, soldi da spendere, da aver speso e simili. E un esame che *devo* riuscire a rinviare.

Per fortuna, pero', stasera qualcosa e' riuscito a farmi dimenticare tutto questo per un'oretta. Stefano Benni che legge suoi racconti e poesiole accompagnato da Gianluigi Trovesi (sax, clarinetto) e Paolo Damiani (violoncello). I primi due gia' li conoscevo e amavo, il terzo e' stato una bella scoperta. Benni e' uno dei rare eccezzione alla regola non scritta che vuole che l'autore di un testo sia un cane quando si tratta di recitarlo: tante cose le avevo gia' lette, ma raccontate da lui han fatto tutto un altro effetto. Non solo fa crepare dal ridere, ma sa come creare un'atmosfera con l'intonazione della voce, catapultarti in una scena, in una citta' o in un locale. E, tra un'assurdita' e l'altra, ti infila quella sottile vena di malinconia che, non si sa come, ti fa sentire un cretino ad applaudirlo.

Vabbe'. Comunque dio e' un negro, lo dice anche Benni. Un negro col cappello. E la tromba.