MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


16.6.09

Contro l'Arte

Quello che segue è un pot pourri di già detto, già scritto e già sentito. Un fritto misto di Eco, Deleuze, Barthes, Lakatos e Derrida messo insieme alla bell'e meglio. Un collage di idee con alle spalle minimo trent'anni (alcune forse anche superate) che però continuano non hanno mai fatto breccia fra la massa, presso cui continuano a destare scalpore e risultare assolute novità - pardon, assurdità.

Stanco di ricevere commenti scandalizzati, amareggiati, allibiti o semplicemente derisori ogni volta che faccio riferimento a uno dei concetti che seguono, ho pensato di scrivere una buona volta, per filo e per segno, perché non ne posso più dell'Arte con la "a" maiuscola e dei dogmi che le permettono di sopravvivere nonostante la palese inadeguatezza ai tempi moderni.


Contro l'Oggettività

Alla critica è solitamente attribuito il ruolo di valutare l'arte - in parole povere, di distinguere tra quella "buona" e quella "cattiva". Di fronte all'ovvia domanda "Che cos'è l'arte buona, che cos'è quella cattiva, e come si riconosce l'una dall'altra?" una risposta frequente suona qualcosa come: "L'arte buona è quella che risponde ad alcuni criteri, e la valutazione secondo questi criteri permette di operare la distinzione". Questi criteri (ne cito alcuni, particolarmente gettonati: originalità, innovazione, compiutezza formale, perizia tecnica, ispirazione) sono spesso visti come oggettivi: permetterebbero una valutazione indipendente dal soggetto che la esprime, dalle sue preferenze, dal tempo in cui vive.

Se nelle righe precedenti tutto sembra filare liscio, c'è qualcosa che non va: sono pressoché inaccettabili. Le obiezioni da sollevare sono molte, radicali e di grande importanza.
La prima: se anche esistessero criteri oggettivi di valutazione nessuno garantirebbe che la loro applicazione condurrebbe alla determinazione un valore artistico ammissibile come tale. L'arte ci colpisce perché colpisce la nostra sfera soggettiva, stimola pensieri ed emozioni personali: ogni valutazione che prescinda dalla dimensione soggettiva, dall'impatto razionale ed emotivo, sarebbe del tutto inadeguata a render conto dell'esperienza artistica.

In effetti, estremizzando, è perfino discutibile la nozione di oggetto in campo artistico: l'arte vive nella dimensione soggettiva, e formulare un giudizio significativo su un'opera - qualcosa che vada oltre alle dimensioni della tela, la composizione dei colori, la data di realizzazione, ecc. - è sempre fare riferimento alla propria percezione. L'opera è allora rifratta costantemente in una galassia di sensazioni personali, simbologie, significati soggettivi al di fuori della quale non è mai dato di ammirarla. Un fiore dai mille petali, il cui centro risulta invisibile e - soprattutto - insignificante. Inesistente, si potrebbe dire, abbracciando la molteplicità delle diverse "mappe" soggettive che sostitituiscono il "territorio" e vanno così a costituire il nuovo, spettacolare oggetto dell'analisi artistica.

Si stava però discutendo di criteri di valutazione. La scelta di questo o di quello è largamente arbitraria, così come lo è il peso da attribuire loro. Se spesso non ci accorgiamo di questa arbitrarietà, è perché non sempre siamo consapevoli delle premesse da cui discendono le nostre decisioni. L'esplicitazione delle premesse implicite alla base dei nostri giudizi - premesse spesso per nulla inattaccabili, ma profondamente soggettive o determinate dal contesto culturale in cui viviamo - comporta sì la rinuncia all'assolutezza delle convinzioni, ma anche una maggiore consapevolezza della loro struttura logica, delle basi su cui poggiano e di quelli che sono i loro limiti.

Si può dire in questo senso che tanto più un pensiero riesce ad essere consapevole della propria soggettività, tanto più mette a nudo i pilastri che lo sorreggono, quanto più risulterà - a modo suo - oggettivo: "queste sono le mie premesse, e all'interno di questa cornice logica io sono valido". Al contario, proprio quegli argomenti che paiono più solidi e "oggettivi" sono invece i più instabili ed insidiosi: poggiano inconsapevolmente su impalcature ingombranti e arrugginite, che lo spingono molto lontano da quel ground level che dovrebbe corrispondere - ammesso che esista - alla fantomatica realtà così com'è.


Contro l'Autore


Il compito dei rami è allontanarsi dalle radici. L'autore crea, diffonde e poi tanti saluti, la sua creatura inizia a ballare da sé. Quando può (mai). Il più delle volte, a farla sgambettare è chi ci si ritrova a confronto - il fruitore. Che è libero di farne quel che gli pare e, soprattutto, di interpretarla come gli pare.

L'autore può avere tante e magnificentissime idee sulla sua opera e il significato da attribuirle, ma restano idee sue, tali e quali a quelle di chiunque altro. Non c'è motivo alcuno per privilegiarle: certo, si potrebbe dire che l'ottica dell'autore difficilmente farà apparire l'opera poca cosa, che verosimilmente l'autore disporrà di una buona chiave di lettura per il suo prodotto, ma non è affatto detto che questa chiave di lettura sia consapevole, né che sia esportabile ad altri.
Spesso e volentieri, l'ottica dell'autore è estremamente limitante. Sono molti i casi in cui le opere sono apprezzate col senso dato loro dalla critica anziché dal loro autore. Talvolta, l'autore neppure sospetta (né sarebbe in grado di sospettare) che la sua arte possa assumere determinati significati - vedi casi come quello dell'outsider art, del trash inovolontario ora elevato a sublime, dell'arte rurale che oggi finisce per rappresentare tutto il mondo e il sistema di idee in cui opera l'artista, piuttosto che la piccola cosa che questo intende ritrarre.

Anche senza ricorrere a fenomeni borderline, l'ottica centrata sull'autore mostra tutta la sua inadeguatezza quando tenta di render conto del perché qualcosa piace. Ciascuno di noi inserisce ciò che ama nel suo vissuto personale, e lo ama proprio per la relazione che viene a crearsi tra vita, idee e oggetto amato. Quanti sono i casi in cui ci sentiamo legati a una canzone perché ci ricorda di qualcosa o di qualcuno? Senz'altro parecchi. Se aggiungiamo quelli in cui il legame nasce dalla particolare, magari anche episodica, relazione tra le nostre idee e le nostre emozioni e quelle che leggiamo nella canzone, arriviamo a includere la quasi totalità della musica che apprezziamo - e di quella che detestiamo, anche.
Ora il punto è: chi dice che ciò che noi leggiamo nella canzone corrisponde alla volontà dell'autore? Di certo i Joy Division di "Love Will Tear Us Apart" non immaginavano che la loro canzone sarebbe stata amata a venticinque anni di distanza da stuoli di ventenni perché mi ricorda quella scena di Donnie Darko che mi ricorda le feste del liceo che mi ricordano il mio primo bacio. Né d'altra parte Sterne poteva aspettarsi che dopo secoli "Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo" sarebbe stato apprezzato dagli amanti del post-modern come versione ante litteram del genere.

Esempi forse estremi, che vogliono rendere palese e manifesto un fenomeno molto più universale: nei libri, nei quadri, nella musica leggiamo quello che mettiamo noi, non quello che l'autore voleva fosse letto. La volontà e le vicende dell'autore potranno essere, a seconda dei casi, interessanti, illuminanti, irrilevanti, fuorvianti, ma in ogni caso sono altro rispetto alla sua opera. Ma è solo traviando le intenzioni dell'autore che un'opera può ispirare nuove idee, indurre una trasformazione nell'arte a venire. Concepire soltanto l'ottica prevista dal creatore rischia di essere, oltre che praticamente impossibile, anche profondamente masochistico: il fruitore fatica nel confronto con l'opera, cerca strategie e nuovi approcci per comprenderla, e se riesce nell'impresa, l'opera acquista un significato e diventa parte della sua vita.
E' un peccato gettare via quest'opera di creazione, e le soddisfazioni che ne derivano, solo per negare che il vero autore è il lettore.


Contro l'Autenticità

Alla musica, al cinema e alla letteratura si chiede spesso, e curiosamente, di essere "autentica". Di esprimere i reali sentimenti dell'autore, di non essere un prodotto artefatto, costruito a tavolino. Altrettanto curiosamente, non si fa lo stesso con l'architettura, e a nessuno salterebbe in mente di chiedere di essere "autentico" a un attore teatrale (il cui mestiere è quello di non esserlo).

Ciò che accusiamo di essere "falsa" è l'immagine dell'autore che ci creiamo in base alle nostre sensazioni e alle nostre conoscenze. Quest'immagine è il punto d'arrivo del ponte opera/autore che tracciamo (che il fruitore traccia, terzo incomodo onnipresente, chiave di volta di ogni esperienza artistica), una ricostruzione a posteriori sulla base di tracce sparse qua e là, e in quanto tale, una costruzione in piena regola. Architettura, una cosa che non può essere né vera, né falsa: semplicemente, è costruita.

Si può affrontare la questione anche da un altro punto di vista, tornando per un istante all'ottica autore-centrica ma ricordando che ogni opera è altro rispetto al suo creatore. Non è la sua vita, semmai la rappresenta tramite un sistema di filtri, di espedienti più o meno consapevoli, di strumenti e tecniche che l'autore abbraccia nel momento stesso in cui sceglie di scrivere (carta e penna, o computer e word processor), cantare (voce, chitarra, microfono), dipingere (tela, pennello, colori)... Anche come creazione dell'autore, l'opera è una costruzione, e come tale potrà essere più o meno indicativa delle idee e degli stati d'animo di chi l'ha edificata (a patto che il fruitore sappia leggerla in questo senso), ma certo non "vera" o "falsa".

Sotto un'ultima prospettiva, si potrebbe sì tornare a parlare di autenticità ("verità" e "falsità" espressiva di un'opera), ma con un significato nuovo e paradossale: tanto più un'opera sarà manifestamente costruita, tanto più metterà a nudo il suo essere macchinata (tanto più sarà "falsa" in senso tradizionale), tanto più renderà palese il suo status di opera, il suo perenne essere in bilico tra la costruzione operata dall'autore e la ricostruzione operata dal fruitore. Tanto più - in ultima analisi - sarà un'opera "vera".
Il vero è il falso e il falso è il vero, bella roba: sbarazziamoci di questo concetto, e andiamo avanti.


Contro la Profondità

Di celebrazioni degli Abissi dello Spirito se ne è già lette a sufficienza. Quello che raramente si è trovato scritto è che di Abissi dello Spirito, Voragini dell'Anima e profondità esistenziali assortite nelle opere d'arte non ce n'è manco mezza. A costo di risultare pedante, ribadirò: abissi, voragini e profondità ce le vediamo noi. Sono apparizioni, miraggi che nascono dalla nostra lettura e solo al suo interno sopravvivono.
Nessuna tela dipingerà mai il Vuoto dell'Esistenza: piuttosto, le sue forme e i suoi colori evocheranno immagini, che si associano ad altri concetti, ad altri momenti, e richiamano esperienze che ci paiono ritrarre sensazioni - che chiamiamo, un po' enfaticamente, il Vuoto dell'Esistenza. Ciò che l'opera traccia, assieme a noi, non è un abisso ma una rete, un labirinto di connessioni e rimandi che si dispiega su una superficie, la crea, la piega e la increspa dando - qua e là - l'impressione di una profondità.

Profondità che è però un ologramma, uno scherzo di luce: un'immagine mentale delineata dando un corpo unico a molte cellule distinte e indipendenti. Scorgiamo le tracce, e decretiamo l'esistenza del lupo: benissimo, e complimenti all'opera in grado di evocare un lupo così sibillino come il Vuoto dell'Esistenza, ma non dimentichiamo che ciò che stiamo vedendo sono solo tracce, corpuscoli che si connettono e risuonano fra loro.
Non dimentichiamo, soprattutto, che non necessariamente una rete è fatta di tracce che portano a un lupo: la rete potrebbe non parlare di nulla, oppure riferirsi a sé stessa. Potrebbe, insomma, rinunciare ai giochi di fumo e ai trucchi da prestigiatore, mettere in scena - con o senza orgoglio - la propria superficialità.

I libri di Queneau, di Borges, di Calvino, la musica di Bach e dei Tortoise, i quadri di Mondrian e le battaglie di Paolo Uccello sono labirinti della pura forma, esercizi di stile ben oltre l'essere privi di contenuto e di profondità. Non solo aprono finalmente le porte al regno delle superfici, ma pongono anche l'accento sulla fragilità, sulla leggerezza, della dicotomia forma/contenuto: di fronte a queste opere, diventa chiaro il castello di carte - non c'è significato che non sia significante di qualcos'altro, non c'è contenuto che non sia forma. Non c'è profondità che non sia, prima di tutto, superficie - e questa forse è la scoperta più profonda.


Contro l'Originalità

Derivativo. Puoi aver scritto il romanzo più avvincente del decennio, registrato la hit del secolo, dipinto la tua Sacra Famiglia con la maggior dedizione possibile, ma nella tua opera non c'è nulla di nuovo, stai solo reinscenando il già visto: non meriti un posto nei libri di storia, né nei cataloghi delle mostre. E neppure tra le priorità di lettura (o ascolto, o quel che è) dell'appassionato, ormai più esigente e intransigente di qualsiasi critico.

La richiesta di originalità è un comodo stratagemma per gestire (anzi: negare) la molteplicità, farsi strada senza fatica in un turbinio di proposte molto vicine fra loro. Si individua un criterio sufficientemente solido ("chi è venuto prima"), si stabilisce che l'opera che meglio risponde a questo criterio è originale e le restanti sono copie e via, ecco operata quella selezione che pare essere lo scopo primario della critica. Tutto questo senza neppure la necessità di entrare in sintonia con le singole opere, di confrontarcisi, mettersi in discussione e cercare le chiavi di lettura a loro più adeguate. E che sarà mai, sono copie, non meritano certo una simile considerazione!

Il fantasma dell'originalità pesa sulla valutazione di molte carriere artistiche. A pochissimi è concesso di ripetersi: ai più è richiesto un continuo mutamento, un'evoluzione evidente ed incessante. Si dimentica però che non sempre un artista è soddisfatto della sua opera, non sempre ritiene di avere esaurito le possibilità di un dato linguaggio: può capitare che desideri, anziché imbarcarsi in un ulteriore rinnovamento, approfondire e perfezionare l'esplorazione di territori già sondati in precedenza. C'è la tendenza a liquidare sbrigativamente fasi di questo genere - in cui domina l'attenzione per i dettagli, la riflessione, la ricerca della compiutezza globale - per "stanche creative"; al contrario, ci si accontenta di poche innovazioni ad effetto inserite in strutture claudicanti per gridare al miracolo, al ritorno del genio. Spesso, la foga dell'originalità plateale e la scarsa pazienza fanno perdere di vista proprio gli episodi più maturi e compiuti della produzione di un autore (o di un filone).

La copia perfetta dovrebbe essere indistinguibile dall'originale, e dunque risultargli del tutto equivalente - non inferiore. Se così non è, quelle che chiamiamo copie non lo sono realmente, ma possiedono comunque tratti peculiari - tratti originali. La nostra impressione negativa deriverebbe allora anche dall'incapacità di coglierli: cerchiamo di applicare, tali e quali, le chiavi di lettura che funzionano con ciò che già conosciamo, e davanti alla loro scarsa efficacia riteniamo che siano le "copie" ad essere sbiadite e poco intense, piuttosto che le nostre chiavi inadeguate. Siamo portati a credere che due opere in territori molto vicini debbano per forza scommettere sulle stesse strategie, ma non è affatto scontato che sia così: l'una potrebbe mettere al centro elementi e sensazioni che l'altra lascia in secondo piano, e viceversa.

Resta comprensibile, comunque, una certa ricerca di nuovi stimoli da parte del fruitore. Alla milleunesima riproposizione di idee tutto sommato simili, chiunque sarebbe sopraffatto dalla noia - a meno di passione sviscerata o capacità di sopportazione eccezionali. Più che le date di realizzazione delle opere, però, incide su questo l'ordine in cui si entra a contatto con esse, il proprio percorso personale. Va considerato, peraltro, che buona parte della sensazione che si prova al cospetto dell'originale ("Ah, questa sì che è un'altra cosa!") nasce dalla consapevolezza di essere di fronte al capostipite, all'unico e inimitabile - pura autosuggestione, insomma.

Se permutando l'ordine delle opere l'originale diventa la copia, se ogni copia è o indistinguibile dall'originale, o sufficientemente distante da essere originale a sua volta, le differenze tra originale e copia svaniscono, i due concetti collassano. Lasciamoceli alle spalle, e procediamo.


Contro la Storia

Ho sfruttato, sopra, le immagini di rete e percorso personale. Queste nozioni si contrappongono, oggi più che mai, alla concezione lineare, univoca della storia che domina le impostazioni tradizionali.

Filesharing e ristampe, libri, siti e riviste - accanto a musei e biblioteche - rendono possibile ad ogni appassionato di calarsi nell'arte seguendo le linee che preferisce, ripescando a destra e a manca tra le opere contemporanee e quelle degli anni che furono. Il vincolo una volta obbligato -sono un giovane degli anni Settanta - ascolto la musica degli anni Settanta - è oggi spezzato da una libertà di scelta che a molti suona come anarchia totale.
Tanto l'ascoltatore quanto l'artista e il critico vivono in un mondo in cui l'intero passato è accessibile, non solo quello nelle immediate vicinanze: influenze ed infatuazioni somigliano qui più a zigzag o ragnatele che a frecce chiaramente direzionate.

D'altra parte, la storia mostra costantemente il suo carattere dinamico e multisfaccettato: paese che vai, storia che trovi, si potrebbe ironizzare, giusto per non estremizzare in dipartimento che vai, giornale che vai, ecc. Ancora di più, la visione della storia muta continuamente col suo scorrere: fenomeni di revisione, rivalutazione, ridimensionamento sono una presenza immancabile di ogni periodo. Si può sostenere che, prima ancora che il tempo passato, la storia incarni quello in cui è scritta.
Quando un'opera o un movimento vengono "rivalutate", piuttosto che accanirsi contro chi fino ad allora non le aveva considerate ci si dovrebbe domandare: perché le stiamo rivalutando proprio adesso? Perché a rivalutare sono determinati soggetti e non altri? Quali sono i pilastri su cui si fondano le nostre attuali concezioni, e cosa ci impediscono di vedere nel momento in cui mostrano le meraviglie che prima ci eravamo persi?

La mancanza di rispetto nei confronti della storia è il sistema immunitario che le impedisce di fossilizzarsi e di prendersi troppo sul serio. Revisionismi, recupero in chiave nostalgica, ironica, provocatoria di stili e simbologie identificate col "male assoluto" (dal nazismo al manierismo, dal gotico al progressive rock) ricordano che è esistito un tempo in cui la logica era invertita rispetto a oggi, a dimostrazione che idee e fenomeni vivono di contraddizioni e fascinazioni complesse, non di piatte dicotomie bene/male, giusto/sbagliato in cui quelli che oggi chiamiamo errori del passato appaiono come frutto di isteria collettiva o deplovervoli momenti di idiozia.
Sono osteggiati anche gli atteggiamenti iconoclasti come l'irriverenza verso i grandi nomi o il disconoscimento di quelle che sono sempre considerate le tappe fondamentali della storia dell'arte. Simili eresie però assicurano che nessun traguardo sia "dato per buono" una volta per tutte, ma la coscienza critica e creativa resti sempre protagonista di ogni approccio all'arte. Permettono il germogliare di nuove associazioni di idee, letture trasversali e in controtendenza: anziché cancellare quanto già consolidato, queste vanno ad arricchirlo, formando un panorama che prevede molte alternative anziché plagiare con un unica verità granitica che non lascia spazio alla riflessione.

La storia è un concetto pericoloso, assolutista: rischia di nascondere la complessità e la sostanziale arbitrarietà del flusso temporale. Spacciando gli effetti come banali corollari delle cause, valorizzando esclusivamente punti di partenza e punti di arrivo, nega l'importanza e la molteplicità dei tragitti che dagli uni portano agli altri e, implicitamente, li determinano come eventi, rilevanti e riconoscibili.
La letteratura contemporanea rinuncia alla linearità per ammettere una pluralità di visioni; similmente, la storia monolitica implode, si frattura in tante storie. Percorsi intercorrelati e in parziale contraddizione che formano una rete in perenne mutamento, in grado di render conto - ora tramite l'uno, ora tramite l'altro - della vasta gamma di fenomeni che costituiscono l'arte e i suoi rapporti. Non per questo diventa impossibile l'emersione di alcuni tratti generali, analizzabili anche secondo logiche lineari vecchio stile, ma queste descrizioni non vanno confuse con l'intero panorama: sono tasselli al pari degli altri, parziali e limitati.


Contro l'Avanguardia

Il termine "avanguardia" è entrato nella critica artistica col primo Novecento. Oggi il concetto è associato soprattutto al periodo modernista, caratterizzato da una ricerca della rottura col passato in favore di un rinnovamento radicale. Le massime espressioni in architettura e in musica di questa estetica - stile internazionale e dodecafonia - proponevano un sostanziale rifiuto di ogni fronzolo e rapporto col contesto, in funzione di strutture rigide, universali, razionali.
Critici e storici concordano nel ritenere il modernismo terminato con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale: di lì a poco, avrebbe preso il via la tendenza del postmoderno, meno utopista ed intransigente. Ancora oggi, però, si ricorre alla categoria di avanguardia anche per indicare alcune espressioni artistiche: questo utilizzo è inappropriato.

Ciò a cui ci riferiamo oggi come avant- è molto lontano dalle premesse culturali delle avanguardie storiche. La sperimentazione contemporanea mira a provocare, ricontestualizzare, ricerca l'ostico ma senza rottura col passato: non tenta di scandire un prima e un dopo o direzionare gli sviluppi futuri. Non risponde più, insomma, a un uso metaforico del termine militare - un drappello di esagitati che parte in esplorazione di nuove strade, poi percorribili da un intero esercito.
Se lo scopo dell'avanguardia primo-novecentesca era elaborare nuovi linguaggi senza curarsi eccessivamente del loro perfezionamento espressivo (ci avrebbero poi pensato gli artisti ordinari), è sempre più vero che l'avanguardia contemporanea non inventa, ma si inserisce in una tradizione ben consolidata: nonostante le posture e gli alti proclami, è una forma implicita di manierismo. Un manierismo che, però, continua a disinteressarsi della compiutezza formale, nascondendosi dietro la maschera della presunta ricerca, rincorrendo la difficoltà e talvolta l'intellettualismo spacciando il caos per complessità, il come viene viene per espressione dello Spirito, la scarsa cura per la realizzazione come interesse e predominio dell'Idea.

Sono invece tacciate di manierismo molte opere esplicitamente pop, nelle quali l'attenzione alla costruzione e, talvolta, anche la ricerca di nuove forme sono certamente maggiori. Proprio in questi casi, convivono accuse inconsistenti di facilità e inespressività: scambiando per banale tutto ciò che non si presenta ostico, non ci si accorge di pretendere dall'opera pop molto più che da quella avant. Alla canzone pop, per esempio, si richiede di essere immediata, contagiosa ma in modo non troppo plateale; si esige anche che ogni suo istante sia assolutamente necessario, mentre nel caso di lavori avanguardistici lungaggini e sbavature sono tranquillamente perdonate. Non tutte le opere pop rispondono effettivamente a queste richieste, ma molte possiedono lo stesso un grande potenziale espressivo, che un po' di pazienza e dedizione svelerebbero assieme ad architetture, a conti fatti, decisamente complesse e raffinate.

All'avanguardia come rottura si sostituisce una pseudo-avanguardia perfettamente inserita nella continuità; all'avanguardia come ricerca una forma comoda e subdola di maniera. C'è una terza caratterizzazione dell'avanguardia primo-novecentesca, ed è quella trattaggiata da Umberto Eco con la nozione di apertura.
Secondo Eco, tanto più un'opera è "aperta" quanto più è inscindibile dall'apporto interpretativo del fruitore. Un'opera aperta - un'opera di avanguardia - non comunica un significato univoco, ma richiede al contrario di essere completata dalla riflessione del lettore, che è spinto ad compiere sponte sua un cambiamento di paradigma nella sua visione artistica per potervisi rapportare in modo produttivo.
Guardando alle opere più celebri etichettate come avanguardia, sia fra quelle storiche che fra le più recenti, ci si accorge che per ognuna di esse esiste una vulgata, una chiave di lettura consolidata che ci informa del significato corretto da attribuire alle varie 4'33'', L.H.O.Q., La trahison des images. Quelle che nascono come opere aperte entrano nella cultura già completate e richiuse: per alcune di esse, l'imponenza del lavoro di "chiusura" rispetto al materiale che costituisce l'opera fa sì che neppure sia necessario il confronto diretto con essa - per capirla basta averne letto o sentito parlare, non serve essersela ritrovata davanti.

Al contrario, proprio per le opere che da subito si presentano come chiuse può essere necessario un impegno consistente da parte del fruitore, che deve riaprirle a sufficienza per poterci entrare, stabilire un contatto emotivo con loro e renderle parte integrante della propria vita. È il caso, già discusso, di molte opere pop, ma anche delle cosidette letture devianti, che danno valore a oggetti sulla base di schemi imprevisti. Sempre Eco è maestro in quest'arte, e ne da esempio nel romanzo Il Pendolo di Foucault (dove l'oggetto di lettura deviante è, a seconda dei gusti, un appunto semicancellato o l'intera storia umana), ma soprattutto nel divertentissimo My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni, che rilegge I promessi sposi come sequel, ad opera di Joyce, del Finnegans Wake.

Se l'opera aperta è assorbita dalla cultura e presentata come chiusa, se l'opera chiusa ha bisogno di essere riaperta per essere assimilata, anche l'ultima accezione del termine "avanguardia" finisce per crollare. La possibilità di letture devianti, poi, suggerisce una strategia di attacco all'ultimo caposaldo dell'Arte con la "a" maiuscola: l'opera.


Contro l'Opera

Una rapida carrellata di stili e movimenti del secolo scorso: dada, collage, sampling, remix, situazionismo, happening, arte autodistruttiva, found sounds. Tutti minano, per un motivo o per l'altro, le fondamenta del concetto di opera, il cui mito però continua placidamente a prosperare, nella forma più estrema che la vorrebbe eterna, indivisibile, immodificabile, irriproducibile.

In alcuni ambiti artistici consolidati, comunque, il concetto di opera è particolarmente sfumato, e salva sé stesso solo centuplicandosi. Nella musica classica spartito, esecuzione, eventuali trascrizioni sono tutte considerate opere a sé, seppur evidentemente collegate. Nonostante alle esecuzioni sia conferito lo status di opera, la libertà concessa è limitata dal vincolo di fedeltà allo spartito: sono permessi cambiamenti minimi dell'organico esecutivo e (quel che è centrale) interpretazioni personali che tocchino la dinamica, le accentazioni, le durate. Eliminare parti e modificare note sono invece tabù assoluti, e anche la revisione radicale del mood dei pezzi è considerata in odore di eresia.

Registrazioni e riproduzioni rendono la questione ancora più spinosa: mentre in alcuni settori (la musica pop, la letteratura, il cinema, il design) la copia riprodotta è considerata l'opera nella sua forma più pura, in altri (la musica classica, la pittura, il teatro) assume valore solo come testimonianza dell'opera vera e propria (l'esecuzione, il quadro, la recita).

Non solo l'oggetto da considerare opera muta e si moltiplica nei diversi ambiti artistici: l'opera (anche una singola opera!) muta nel tempo e in base ai contesti. Questo è vero per la musica classica, in cui registrazioni distanti qualche decennio mostrano differenze di gusto molto pronunciate e di certo più impressionanti che quello che conseguirebbe dall'infrazione moderata di qualche tabù del genere (per esempio, la soppressione di un paio di battute). Ma è vero anche per i classici letterari stranieri, che appaiono nella nostra lingua in traduzioni diverse che testimoniano l'evoluzione degli stili e dei gusti.
Per non parlare delle enormi differenze percettive indotte dal contesto di fruizione. Un film al cinema, un film in TV interrotto dalla pubblicità, un film in dvx visto in treno sul proprio laptop sono certamente esperienze diverse. Allo stesso modo, la collocazione e l'illuminazione di un dipinto in un museo influiscono molto sugli aspetti che ne vengono evidenziati; Duchamp ha addirittura mostrato che il semplice fatto che un oggetto sia o non sia in un museo è in grado di renderlo opera o meno!

Se l'opera forma un tuttuno col contesto, se si modifica, può essere riprodotta e addirittura spezzettata e ricomposta per formare nuove opere, la sua sacralità viene meno. L'opera diventa misero testo, materia poco più che grezza, altamente reattiva, aperta a molti utilizzi. Misero testo? Quante porte si aprono di colpo con questo cambiamento di prospettiva! Sinfonie finalmente libere da tappeti di violini, sborodolataggini romantiche secondi movimenti soporiferi; battute teatrali che possono essere modificate senza far torto a nessuno; album musicali che tornano ad essere visti come uno dei tanti modi possibili di raccogliere certe canzoni, ascoltabili, godibili, recensibili di per sé, senza preoccuparsi di tracklist, riempitivi che penalizzano il risultato globale e altre manie masochiste figlie dell'opera che va presa così com'è.

Con la pesantezza dell'opera che si trasforma nelle in un testo scintillante, pietra filosofale dalle mille possibilità, si completa questa opera al nero in miniatura. Si ritorna a casa non con oro e soluzioni facili (per allungare la vita, o fare semplicemente buona critica), ma con qualche certezza in meno. E, spero, con qualche spunto, tra cui la scommessa di un rapporto con l'arte meno serioso, basato su presupposti diversi da quelli che sono stati bersaglio di questi otto paragrafi.
Non è necessario, però, buttare nel cestino qualsiasi termine li rievochi. Tutto sommato, quelli presi di mira sono concetti utili, perfino illuminanti se utilizzati con cognizione di causa: strumenti che si può scegliere di utilizzare o meno, a seconda delle esigenze del caso. Con la consapevolezza dei loro limiti e dell'esistenza di altre possibilità. In fin dei conti, si tratta solo di prenderli con un po' di leggerezza, con la lettera minuscola...

6 comments:

Francesco F. said...

Premetto che non ho letto tutto il post ma lo farò appena finisco l'esame che sto preparando (settimana prossima), perché è ovviamente molto interessante, ed è il tipo di compendio che è utile a chi come me non studia o non ha approfondito i testi di quei capoccioni che hai citato in cima al post.

Posso dire qualcosina però, se ho capito l'andazzo. Se quello che dicono i capoccioni è la verità (e lo è; e se non lo è, è quanto di più vicino alla verità ci è dato conoscere) non c'è ragione di esserne scandalizzati. Lo scandalo sta solo nel come si espongono questi concetti. E' ovvio che se tu dici "Io sono contro l'Arte/gli artisti/le opere" susciti scalpore, se non appunto scandalo (ammetto che c'è chi grida allo scandalo forse troppo subito). Perché se invece spieghi esplicitamente cosa intendi (come fai in questo post) non credo che intenderesti niente di scandaloso o di destabilizzante. E anzi (ribadendo che ancora non ho letto il post né conosco le teorie che riassume, quindi potrei sbagliarmi) anzi queste stesse teorie credo che portino in sé le giustificazioni alle azioni e ai pensieri di quelli che superficialmente ti tacciano di eresia. [Che poi è quello che dici anche alla fine del post (l'ultimo paragrafo l'ho letto :P)]

Quindi di che parliamo? Alla fine è il solito discorso contro la superficialità popolare/populista. Da "Contro l'Arte" passiamo a "Contro la massa"... molto meno scandalosa, come posizione :P

wago said...

Beh, si', in principio dovrebbe essere come dici tu. Ma credimi: prova, anche senza intento polemico, a suggerire a un appassionato "vecchio stile" (che puo' avere anche 18 anni, eh, anzi, i zuen sono tra i peggiori) che a volte l'intenzione dell'autore conta relativamente, che non ha tutta questa importanza chi viene prima e chi viene dopo, che una canzone che suona "di plastica" puo' essere molto piu' figa di qualche intensissimo bzzbzz rumoristico/psicologico.

Se il tono (solo quello dei titoli, poi) e' cosi' polemico e' perche', a furia di opinioni scandalizzate, accuse di eccessivo intellettualismmo ecc, ho raggiunto il punto di non sopportazione.

Molte delle cose che ho scritto possono sembrare perfino banali: in parte perche' lo sono (e non smetto mai di meravigliarmi che qualcuno si accanisca tanto a negarle), in parte perche' ho cercato di metterle giu' nella maniera piu' lineare possibile, in modo che appaiano pressoche' ovvie.

Grazie comunque per il tentativo di leggere un simile mattonazzo: pensa che sono partito con l'obiettivo di essere estremamente sintetico :D

Francesco F. said...

Ho finalmente letto il malloppone. Sono parzialmente d'accordo con quanto ho detto nel mio primo commento, perché il malloppone è stato solo parzialmente quello che mi aspettavo.

Mi esprimo sugli aspetti che più mi riguardano quando cerco di capire perché un'opera mi piace (non mi sono necessariamente imbattuto in tutti gli 8 elementi esaminati dai tuoi paragrafi... per certi elementi non mi sono mai posto il problema, e quando lo hanno fatto altri (i critici) li ho subito liquidati come parziali e/o pigri)

Siamo d'accordo che l'arte sia soggettiva e che il mestiere dei critici non è quello di definirla in termini oggettivi.

Siamo anche d'accordo sull'Autore e sul fatto che l'opera non gli appartiene. Anche se... da una parte penso al concetto che c'è alla base del diritto d'autore, dall'altra mi chiedo se l'Autore abbia un merito, se sia un inventore o uno scopritore. E' però troppo comodo negare la paternità dell'Autore solo perché col passare dei tempi e dei contesti la sua opera viene fruita in maniera diversa. Rientra semplicemente nella soggettività del rapporto fra opera e fruitore. Non è molto solido nemmeno il motivo che un Autore nel corso della sua vita e della sua carriera "cambia idea"... semplicemente l'autore da giovane è un Autore diverso da maturo. Ovviamente non è l'Autore a doverci dire quanto vale la sua opera, ma il suo rapporto con l'opera credo faccia parte dell'opera stessa... l'intenzione dell'autore è artistica quanto l'opera, perché la vita dell'autore è arte. Se uno è artista vuol dire che è una persona diversa, interessante... è un'opera lui stesso. Forse sono stato sbrigativo e superficiale, ma comunque un annullamento dell'importanza dell'autore non lo accetto con facilità.

Su autenticità e profondità non ho ben capito il discorso, ma credo che alla fine dei conti si ricolleghi alla soggettività del giudizio. Se così non è, comunque non sono mai stati punti importanti quando io ho provato a spiegarmi perché una certa opera mi piace.

Sull'originalità siamo d'accordo, è un criterio troppo instabile per basarci sopra un giudizio. Niente è originale, però si può distinguere quando un'opera è palesemente copiata, quando non c'è stato sforzo da parte dell'Autore per fare qualcosa di nuovo (pardon, "nuovo" non si può usare... diciamo "di suo"). Lì entra in gioco l'aspetto commerciale, il mercato dell'arte, quando un Autore ha bisogno di creare un'opera anche quando non ne è capace, o quando non è ispirato.

Sulla storia e l'avanguardia niente da dichiarare, ma nel paragrafo dell'avanguardia dici una cosa importante: la critica precotta delle opere ermetiche/avant arriva a sostituire la fruizione. L'inopportunità della chiusura dell'opera aperta e la necessità della riapertura dell'opera chiusa. Torniamo alla soggettività, comunque.

Sull'opera... beh, neghi l'opera come neghi l'autore, perché reputi la sua fruizione (e quindi la sua ragione d'esistere in quanto arte) dipendente dal contesto, che è mutevole e quindi tutt'altro che oggettivo. Concordo, sì, ma non nego l'opera. Come non nego l'autore. Quindi non arrivo a dire che l'autore è il fruitore (come dici tu) o in extremis che l'opera sia il fruitore (come dicevo io parlando dell'autore). Il fruitore rimane un terzo, rispetto all'opera e all'autore. Poi è ovvio che il fruitore è sufficiente a sé stesso (la soggettività) e ha il diritto di esprimersi riguardo a un'opera e in base a questo definirla arte o meno (o con la maiuscola o meno).

Insomma tutto quello che hai detto è vero, o comunque ha un senso, ma non basta a negare nichilisticamente l'Arte (con la maiuscola) come la si è tradizionalmente concepita, cioè come qualcosa da prendere effettivamente sul serio.
Quindi, come dicevo nel primo commento, non è davvero un discorso contro l'Arte ma su come erroneamente vi si rapporta la massa, cioè il troppo credito che dà alla critica (e il troppo credito che la critica si dà, sentendosi un po' diva).

[continua...]

Francesco F. said...

[...continua dal commento precedente]

D'altro canto però varrebbe la pena spendere due paroline a favore della critica e contro l'eccessiva esaltazione della soggettività. Nonostante, come dicevo, siamo d'accordo sulla soggettività, io ritengo che la critica abbia comunque il suo ruolo nella fruizione dell'Arte e che il fruitore non sia né *l'autore* né *l'opera* (nei termini estremi in cui ne parlavo prima) ma che debba comunque ammettere la sua (parziale) inadeguatezza nella definizione di ciò che è arte (con la maiuscola o meno).
Ma non è un discorso che posso fare così su due piedi...

wago said...

Beh, tante cose sono messe giu' in modo piuttosto radicale (vedi la questione lettore=autore, palesemente eccessiva) da un lato per épater le bourgeois, dall'altro perché la volontà è quella di presentare "l'altra faccia della medaglia" rispetto all'opinione comune, calcando dunque la mano apposta, portando all'estremo alcune argomentazioni giusto per mostrare che, con coerenza, si possono raggiungere posizioni antitetiche rispetto a quelle dominanti.

Lo schema costruttivo dei vari punti è in effetti sempre lo stesso, e credo che la critica più solida a tutta quanta la messinscena potrebbe essere prendersela col suo procedere per dicotomie. Alla fine la cosa è: prendo un concetto, individuo il contrario, poi mostro che l'uno è l'altro e l'altro è l'uno, sperando così di poter dire che il concetto non ha senso (e, se proprio, il suo opposto è preferibile a lui).

C'è l'intento critico, ma alla fin fine c'è anche quello (solito) dell'esercizio di stile: per questo, ho finito per scrivere tutto in modo più intransigente e "duro" rispetto a come poi realmente utilizzo le cose.

Sull'autore: è una forzatura che l'autore sia il lettore, ma credo che davvero esista un culto eccessivo della figura dell'autore, e la sua "ingerenza" all'interno delle opere sia pesantissima e molto negativa. Vedo spesso la musica o la letteratura confuse con la biografia dei rispettivi autori, o il senso di un'opera individuato nella volonta', nelle traversie e nelle frequentazioni del suo creatore. "Quello e solo quello" e se per caso ci vedi dentro qualcos'altro sei un cretino o un ignorante.
Bisognerebbe riuscire a fargli fare "un passo indietro", a 'sto autore. Poi potrei tranquillamente tornare a interessarmene.

Che poi non sia per davvero un discorso contro l'arte non c'e' dubbio, credo pero' che sia un discorso contro l'Arte, ovvero quell'idea (vecchia?) di macigno spiritual/espressivo che non si puo' spiegare non si puo' toccare non si puo' mettere in discussione. Un'idea basata su una serie di valori che a oggi non stanno ne' in cielo ne' in terra.
Io sono un mental-segaiolo del cazzo, ma nonostante la mia seriosita' spropositata credo che andrebbe preso tutto piu' alla leggera, con piu' divertimento. Arte inclusa.

Francesco F. said...

Credo che ci siamo capiti perfettamente. Alla fine siamo d'accordo sulla soggettività (quindi il diritto di ognuno di trattare l'Arte come vuole, mettendoci o togliendoci la maiuscola a piacimento) e sul fatto che spesso si parla d'arte con superficialità e in termini estremi, a cui è giusto rispondere con un j'accuse come il tuo. A mali estremi, estremi rimedi, ma la verità sta nel mezzo. E cielo a pecorelle, pioggia a catinelle, soprattutto XD