MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


1.6.10

Elettronica, formati e i percome dell'ibridazione

Uno degli errori classici del cultore di rock che si avvicini all'elettronica è quello di trattarla - ça va sans dire - come il rock. Ovvero come una creatura che forgiata dalla rivoluzione del Sergente Pepe (+ annessi e connessi) e ancoratasi indissolubilmente a un formato: l'album. Negli anni questo è diventato feticcio e simbolo supremo dello status "artistico" della musica rock. L'assunto implicito che ha accompagnato questa cristallizzazione è: il rock è un'Arte, il musicista rock un Artista e come lo scultore crea stature, il pittore quadri e il poeta poesie, anche il musicista rock crea un preciso tipo di Opera d'Arte, e questo è l'album.

L'elettronica ha una storia diversa e questo processo non l'ha riguardata se non marginalmente. Sì, esistono gli album di musica elettronica e spesso sono opere d'arte fatte e finite, ma il focus è altrove. Il discrimine sta nella traccia - guai a identificarla frettolosamente come equivalente della canzone.
Prima di addentrarsi nella questione, però, è necessaria una precisazione lessicale. Io l'ho chiamata elettronica, ma più correttamente dovrei utilizzare un altro termine (e così farò, da qui in avanti): dance music. Perché la frattura è fra i Led Zeppelin e Jeff Mills, non tra quest'ultimo e Jean-Michael Jarre. A fare la differenza non è l'utilizzo esclusivo di strumentazione elettronica, ma il traguardo ideale in cui i pezzi nascono e a cui sono orientati: l'ascolto casalingo, radiofonico o concertistico in un caso, la comunione fisico/musicale del dancefloor nell'altro. Elettronica è il nome preferito dall'ascoltatore rock, perché gli permette di ignorare questa differenza costitutiva, e con essa l'inadeguatezza delle sue logiche all'universo dance e l'esistenza stessa di quest'universo. Meglio dance music, dunque.

Torniamo a noi: canzone e traccia. La canzone è un prodotto finito, un "capolavoro" (nel senso originario del termine); la traccia dance è invece materiale grezzo e perennemente in fieri, uno spunto che serve al musicista/DJ per allestire quello che davvero è il fine ultimo della creazione elettronica: il DJ set, il mix in cui tutto confluisce e la musica scorre di vibrazione in vibrazione permeando corpo e mente degli astanti.
Il DJ non è un artista: è un sacerdote. Da qui passa la distanza inconciliabile che - nonostante tutti i flirt e gli avvicinamenti - ancora oggi corre tra il mondo rock e quello dance.
Cosa ne consegue? Che seguire la dance tramite gli album è come assistere a una messa tramite versioni romanzate dei sermoni. Non che questi (gli uni e gli altri) debbano per forza essere brutti: semplicemente, sono qualcosa di diverso da ciò che si pretende di seguire.

Mille gli indizi che portano a questa osservazione. Tra i tanti possibili, concentriamoci sui più beceramente "rockisti" - quelli relativi al formato-album. O in generale al long-playing, va'.
L'album dance nasce tipicamente diverso tempo dopo le prime tracce. Il "nome" ce lo si fa non grazie all'LP - che arriva "a cose fatte", ma all'inclusione delle proprie tracce in questa o quell'altra compilation o mixtape, o ancora più volatilmente grazie al passaparola tra DJ - e di conseguenza ascoltatori e "critica". L'hype si crea perché Tizio programma costantemente un tuo pezzo nelle sue serate, perché dai che ti dai la gente inizia a dare in escandescenze quando riconosce il tuo pezzo in pista. E quando capita l'antifona anche Caio inizia a spingere su quel pezzo; altro che recensioni di Pitchfork.
Non solo l'album dance arriva dopo: è anche una cosa radicalmente diversa, un'esperienza di altro tipo. Prendiamo un classico della jungle, "Timeless". Crediamo davvero che Goldie si sia fatto un nome nell'estasi anfetaminica della rave culture con musica così soffusa e iperdettagliata? Chiaro che no: l'album appartiene già al post-rave, è un'elaborazione "da ascolto" di un sound nato per il ballo fino all'alba, è la trasposizione di uno stile da un contesto a un altro, con tutte le "falsificazioni" che è lecito aspettarsi un processo del genere.
E che dire delle numerosissime compilation ricapitolative della carriera di questo o quell'altro produttore? Puntualmente, si rivelano strumenti del tutto inefficaci per ricostruirne il percorso stilistico. Perché lo scopo non è quello, ma ricreare un DJ set fittizio che raccolga tutti gli episodi fondamentali di questo percorso - amalgamandoli però in uno stile fluente, coeso e aggiornato alle ultime tendenze, come avverrebbe in un DJ set reale.
Il long-playing, come il DJ set, è un qui-e-ora ed essendo il flusso - non il pezzo - l'oggetto di culto, non c'è alcun problema a riadattare lo stile a ciò che è nell'aria ora, con buona pace dei filologi.

Un'altra piccola considerazione ci conduce verso un discreto salto concettuale. Quel che spesso si osserva nel passaggio dall'immaterialità di un DJ set (concretissima a dire il vero, per chi è lì) alla resa su disco è una forte "grammaticalizzazione" dello stile. Quella che, nelle prime fasi di un genere dance, è una matassa di intuizioni, contaminazioni e contraddizioni che sulla pista da ballo si scontrano e interagiscono dando vita a situazioni sempre nuove, al momento della sua cristallizzazione su lp prende una forma definita: quello che era incontro occasionale o espediente fortuito si trasforma in regola, o ancora più spesso si conforma a una regola che tacitamente sta imponendosi nella scena.
Esempio: "The Roots of El-B", uscito l'anno scorso. Disco stupendo, raccoglie il materiale di uno dei pionieri del dubstep londinese: suona attualissimo, incredibilmente vicino a quel che c'è in giro ora... Certo, perché è uscito ora, e il suo realizzatore non ha esitato a far suoi fino all'ultimo pattern ritmico i canoni di un genere ormai ampiamente codificato.

Ed eccoci qua: quel che succede nel passaggio dalle prime tracce sparse, dalle prime serate e stupori di pubblico, alla pubblicazione di long-playing - insomma, dalla fase pioneristica di un genere alla sua maturità (volendola chiamare così) è un fenomeno simile a quello che, in linguistica, è chiamato creolizzazione.
Un creolo è una lingua bastarda, un ibrido tra due lingue autonome nato in un preciso contesto sociale dall'interazione tra due comunità. Una lingua a tutti gli effetti comunque, con le sue convenzioni e le sue regole - non scritte. Ma un creolo non nasce già perfettamente formato. E' preceduto da un pidgin, una non-lingua che è un mix instabile delle due lingue originali, una cosa tipo "provo a parlare nella tua lingua ma non so la grammatica, quindi semplifico di brutto e di quando in quando ci metto dentro parole della lingua mia sperando che ci capiamo lo stesso". Una cosa che varia da parlante a parlante, da persona a persona.
Quand'è che avviene il grande passo, che un pidgin si stabilizza e diventa creolo, una lingua a tutti gli effetti? Quando la prima generazione di bambini cresce avendo nelle orecchie il pidgin, acquisendolo come lingua materna. Sono loro che forgiano le regole del nuovo idioma - e loro che reiterandole finiscono per trasmetterle in parte perfino ai genitori.

E' cosi' per i generi? Credo di sì. Credo che un genere sia una lingua che nasce bastarda, tramite l'interazione di generi diversi (ovvero contesti sociali diversi, schemi ideali diversi, e via dicendo). Un genere nasce come cantiere linguistico, banco di prova di una nuova forma di comunicazione che travi le regole di un linguaggio per adattarlo alle esigenze di una nuova comunità. Una comunità che immancabilmente finirà per evolversi assieme a quel genere. Che nel frattempo qualcuno avrà provveduto, in base a qualche parametro, ad etichettare: techno, jungle, dubstep, wonky beats...
E la comunità attirerà nuovi adepti. Ragazzi che cresceranno come musicisti avendo nelle orecchie quei suoni, e alla domanda "che musica fai?" risponderanno con quell'etichetta che hanno imparato designarli. Con loro, inizierà inevitabilmente la fase "manieristica" del genere, o più semplicemente la fase grammaticalizzata: dall'iniziale pidgin musicale/culturale si sarà passati a un creolo... A cui anche una discreta parte dei pionieri iniziali finirà per adattarsi, al momento di passare dall'"oralità" del DJ set alla "forma scritta" del long-playing.

E poi? Poi un genere può morire, di stagnazione ed eccessivo dogmatismo; oppure evolversi, continuare a ibridarsi e raccogliere energie giovani: dare vita a una catena di nuovi pidgin e creoli musicali, reagire al flusso di una comunità che cambia.

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