MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


15.9.06

Ascolti della sett... oh, beh, degli ultimi tempi

Riprendo il costume di pubblicare periodicamente le mie "playlist" con giudizi, commenti e informazioni su quello che ho ascoltato di recente. E' un po' che non lo faccio, ma non ho nessuna intenzione di fare un resoconto anche solo parziale di tutta la roba che ho sentito da più di un mese a questa parte. Mi limiterò agli ultimi giorni, sette o otto, boh.

In primis, ho riscoperto gli Yes. Conoscevo pochi dei loro album, giusto quelli del periodo "classico" e ne amavo davvero soltanto due ("Close to the Edge", forse il disco che indicherei come simbolo del progressive, e "Relayer"). In questo periodo, però, avevo voglia di musica allegra, solare anzi di più ancora, di quelle canzoni che già partono radiose, ma che a un certo punto si "aprono" ulteriormente in melodie strepitose che, se non ti rincuorano quelle, c'è davvero poco da fare. Ho allora rispolverato i bravi Yes e tentato di colmare la mia lacuna, scaricando vari altri dischi, anche delle fasi meno celebrate del gruppo, e riascoltando un po' quello che già avevo. Ne è emerso che degli album che avevo continuano a piacermi molto solo i due di cui sopra, mentre ho ricevuto piacevoli sorprese anche da qualche disco successivo, cosa di cui difficilmente avrei scommesso. Insomma:

Yes: Fragile (1971) 7/10 (R)
Yes: Close to the Edge (1972) 10/10 (R)
"And You and I" se la gioca con poche come canzone più emozionante che conosco.
Yes: Tales from Topographic Oceans (1972) 4/10 (R)
'Mmazza che palle. Faccio davvero fatica ad arrivare alla fine, non solo è di una noia mortale ma anche lo stile dei singoli componenti è fuori fuoco e sottotono. Si salva qualcosa qua e là, ma è totalmente perso in un mare di inutilità lungo quattro facciate di vinile. Un disco così annacquato è difficile trovarlo, ma tutto sommato è meglio perderlo.

Yes: Relayer (1974) 7,5/10 (R)
Album piuttosto sottovalutato, contiene invece due dei pezzi più interessanti e riusciti della carriera del gruppo, la suite iniziale "The Gates of Delirium" e la successiva "Sound Chaser". Wakeman non c'è più e non se ne sente davvero la mancanza, visto che il tocco jazzistico dello svizzero Patrick Moraz rende il disco estremamente equilibrato, vitale e di gusto. E' anche il disco più sperimentale della band, con sezioni che sconfinano nel jazz-rock e nella fusion e momenti di autentico (ma composto) delirio.

Yes: Going for the One (1977) 5/10
Il disco in se è proprio una mezza ciofeca, sovrapprodotto e con suoni ben oltre il kitsch. La versione rimasterizzata però aggiunge numerose bonus track, prevalentemente versioni di prova dei brani finali, che si rivelano spesso superiori al risultato definitivo: pezzi più scarni, suono più ruvido e vivo, maggiore impatto. "Parallels" diventa davvero una bella canzone.

Yes: Drama (1980) 7/10
Fuori Anderson, fuori di nuovo Wakeman, quel che resta della band recluta i due tizi dei Buggles e... Sorpresa! Ne viene fuori un bel disco progressive, lontano dal pop da classifica che si sarebbe potuto immaginare. I brani sono azzeccati, il gruppo da' il meglio di sé, il cantante imita spudoratamente Anderson ma riesce a non farlo rimpiangere. Il sound è più duro e ritmato del solito, qua e là la chitarra è in levare, il timbro delle tastiere si è un po' aggiornato. Peccato il sodalizio sia durato poco.

Yes: Big Generator (1987) 4,5/10
"Love Will Find a Way" è un gran bel pezzo. Sul resto stendiamo un pietoso velo.
Anderson, Bruford, Wakeman, Howe (1989) 6,5/10 (R)
I quattro esuli dagli Yes, in questo periodo guidati da Chris Squire e Trevor Rabin, pubblicano questo disco con Tony Levin al basso. Anderson sforna alcune delle sue migliori melodie, Bruford si diverte con la batteria elettronica e ne escono pezzi quasi synth-pop, con le tastiere assolutamente kitsch di Wakeman che per una volta fanno suonare il tutto quasi ironico. Sembra strano, ma è un bel disco.

Yes: The Ladder (1999) 6,5/10
L'ennesima reincarnazione degli Yes, questa volta col tastierista russo Igor Khoroshev, riscopre il progressive ma non rinuncia alle melodie immediate e accattivanti. Ancora una volta l'assenza di Wakeman giova alla band: Khoroshev più che di mettersi in mostra con assoli interminabili si preoccupa di cesellare atmosfere e rafforzare il suono, inserendo pure qualche elemento inaspettato come l'intro acid-house di "Face to Face". Pezzi forse non memorabili ma di sicura presa, i migliori "Homeworld" e "Face to Face", con quei temi che si fanno man mano più melodici che solo il miglior Jon Anderson sa creare.

Assieme agli Yes è tornata anche la voglia di ascoltare un po' di sano, vecchio prog. Non di quello arzigogolato e spigoloso, ma di quello melodico, piacevolmente pop e, perché no, moderatamente epico. La rivelazione che ne ho ricavato sono stati i Twelfth Night, gruppo inglese spesso associato all'ondata neo-prog di metà anni Ottanta, ma che in realtà ha davvero poco a che spartire con i vari Marillion, Pendragon e IQ. Piuttosto, affonda le radici del suo sound nella nascente dark-wave (Cure soprattutto) ma va a ripescare il melodismo e la teatralità dei Genesis e l'espressionismo, l'angoscia esistenziale di Peter Hammill. Ne risulta una formula originalissima, che non scade mai nell'emulazione del passato ma anzi crea uno stile nuovo, affascinante e toccante.

Twelfth Night: Smiling at Grief (1982) 6,5/10
E' un disco sostanzialmente dark-wave, che però già mostra notevoli tensioni verso il progressive, percepibili particolarmente nei brani lunghi. Sound non molto rifinito, manca di profondità, anche se le venature funk sono pregevoli. Alcuni pezzi saranno ripresi nel disco successivo con esiti sorprendenti.

Twelfth Night: Fact and Fiction (1982) 8,5/10
Capolavoro. Lo conosco da poco ma già rientra nella ristretta schiera di quei dischi che mi provocano sensazioni uniche. E' la rassegnazione il sentimento che domina questo disco. La disillusione, la consapevolezza che la Fine (non so di cosa, ma ha di certo la "f" maiuscola) è già scritta e non si può fare nulla per evitarla o modificarla. Rimane solo da osservarla, quasi con meraviglia, ammirandone la bellezza perversa e mortale. Non è la disperazione, ma qualcosa di più sfuggente e multisfaccettato che trapela dalla musica e dalla prova vocale strepitosa del cantante Geoff Mann, che non ha nulla da invidiare a Peter Gabriel o Peter Hammill in fatto di carisma, personalità e capacità espressiva. Una malinconia profondissima, interrotta da fugaci schiarite, la cui unica funzione sembra essere quelle di essere rimpiante in seguito, giusto per mantenere viva la malinconia stessa.
La musica orbita tutta attorno a questi lenti e inesorabili cambi di sfumatura, passaggi e crescendo che sfociano nelle già citate "aperture", prese in prestito dagli Yes ma in qualche modo precorritrici di quelle di Godspeed You Black Emperor! e Explosions in the Sky. Perno del sound, oltre alla voce, tanto versatile quanto carica e vibrante, sono le tastiere e il basso, il cui ruolo è però mediato non dal progressive ma dalla dark-wave. Così i tappeti di synth sono il tessuto stesso delle atmosfere, e sono le variazioni nei loro ricami a stabilire la direzione in cui andrà la musica: quasi sempre eterei, soffusi, talvolta senza modificare timbro iniziano a ricamare un tema in maggiore, e immediatamente inizia ad aleggiare un po' di speranza in mezzo a tanta desolazione. Il basso è invece sempre pulsante, rotondo e prominente, è lui a tenere il filo melodico dei pezzi, relegando la chitarra al compito di rifinire il tutto con delicati arpeggi aperti, salvo poi permettere un'inversione dei ruoli in occasione dei brevi e intensissimi assoli.
"We Are Sane", "Human being", "Fact and Fiction", "The Poet Sniffs a Flower", "Creepshow": canzoni memorabili che ogni amante del rock, progressivo o meno, dovrebbe ascoltare almeno una volta per poi restarne definitivamente stregato.

Twelfth Night: Live and Let Live (1984) 6/10

Nuovi e vecchi ascolti anche sul fronte "matematico": ho ascoltato qualche disco di quest'anno, con particolare attenzione all'Italia, ricevendone anche piacevoli sorprese.

Muddy World: Finery of the Storm (2006) 8/10
Questo disco sembra essere noto solo al popolo degli Ondarocker, almeno su rateyourmusic. Mi compiaccio di farne parte, perché questa è davvero una gemma di rara classe. Disco non solo originale nella sua fusione di math-rock, jazz-rock e suggestioni world, ma soprattutto piacevolissimo, delicato e caldo nonostante tutti gli spigoli che caratterizzano il genere, che solitamente trae parte del suo fascino proprio dalla freddezza che trasmette.

Sedia: The Even Times (2006) 6,5/10

Caboto: Hidden or Just Gone (2006) 7,5/10
Anche per questi, bolognesi, ringrazio Ondarock. Si potrebbero citare tanti nomi che molto probabilmente sono stati di spunto per la loro musica: Tortoise, June of '44, Gastr del Sol e, non ultimi, King Crimson e Soft Machine. Il risultato, però, è personalissimo e non può essere descritto con uno sterile elenco di nomi. "Hidden or Just Gone" è un disco vario, che alterna pezzi tenui, jazzati, a delirii sferraglianti, possenti groove di basso, fiati, wah-wah, tastiere cristalline, armonie orientali. Se capitano dal vivo in zona non me li lascio sfuggire.

Splatterpink: #3 (2001) 7,5/10 (R)
Bolognesi anche loro, praticamente introvabili sul p2p (mi son dovuto accontentare di mp3 a 128 kbps), gli Splatterpink assomigliano a una versione decisamente incazzata degli Zu. Basso poderosissimo, scimitarrate funk su cui si innesta un drumming violento e ipercinetico degno dei capiscuola NoMeansNo. Voce raschiante la cui funzione sembra quella di sporcare, infangare ulteriormente la musica, già scurita dagli scomposti fraseggi blues di sax e dalla chitarra, mixata bassa ma sempre ruvida e metallica. Maledizione, perché non riesco a trovare altro!?

Off Minor: The Heat Death of the Universe (2002) 7/10 (R)
Tre quinti dei Saetia, pionieri dello screamo, fondano nel 1999 gli Off Minor, per incanalare tutta la carica emotiva e la violenza della formazione in schemi al contempo più rigidi e più liberi. Più rigidi, perché le lame affilate della musica dei Saetia si trasformano in riff obliqui e geometrici, in pieno territorio math-rock con tutto ciò che l'epiteto comporta. Più liberi, perché l'approccio si avvicina al free-jazz, alla rabbia adolescenziale si sostituisce la lucida efferatezza degli Shellac, gli accordi si arricchiscono di sfumature e colori, settime, quinte. L'approdo "intellettuale" dello screamo.

Sul versante metallico poca roba, non è il periodo. Ancora non mi pronuncio sull'ultimo degli Isis e sui Red Sparowes, ma ho ascoltato abbastanza questi due:

Isis & Aereogramme: In the Fishtank 14 (2006) 7,5/10 (R)
Da quel che ho capito dando un'occhiata ai nomi coinvolti negli altri tredici capitoli della collana "In the Fishtank", l'idea fondante sembra quella di imbastire collaborazioni improbabili in area post-rock. Non so come siano gli altri dischi, ma se sono al livello di questo dovrò decisamente ascoltarne qualcuno. Il post-sludge degli Isis è ormai viratissimo verso il post-rock di scuola Mogwai/GYBE!/Eits, la pesantezza e la catarsi metallica si fa sempre più sapientemente dosata, posta all'apice di lenti e inarrestabili crescendo strumentali fatti di mutamenti atmosferici, nubi che si addensano e oscurano monti e valli sottostanti. L'impatto emotivo è fortissimo - "come al solito" si potrebbe dire - ma questa volta è il ruggito di Aaron Turner a devastare l'anima, ma il cantato pulito, quasi un belato, del cantante degli Aereogramme. L'effetto creato è molto diverso, la dimensione catartica scompare quasi del tutto (salvo essere concentrata nei quattro minuti di "Delial") e al suo posto si scopre l'insicurezza e l'impotenza, la sensazione di camminare perennemente sul ciglio di un burrone.

Mastodon: Blood Mountain (2006) 6,5/10 (R)
Niente da fare, "Blood Mountain" è una delusione. Un pezzo eccezionale ("Sleeping Giant") e tanti altri piuttosto belli, non così gratuitamente tecnici come si è detto ma certo meno carichi, fulminanti di quelli del capolavoro "Leviathan". Il disco non è che sia male, anche se non "fila" molto e nel complesso suona parecchio fuori fuoco, ma mi aspettavo molto, molto di più.

Mi è piaciuto tanto l'ultimo di Squarepusher, invece, che mi sembra metta finalmente a fuoco le idee abbozzate senza troppa chiarezza nel precedente "Ultravisitor". Ritmi spastici, epilettici, melodie da videogioco, basso e batteria all'insegna della fusion più sborona e synth ambient. E' un po' una tamarrata, ma gli è venuta proprio bene e si piazza dritta dritta tra i miei preferiti di quest'anno.
Squarepusher: Hello Everything (2006) 8/10

Ho poi riascoltato con più attenzione i due dischi nati dalla collaborazione live tra Four Tet e il batterista Steve Reid. Il secondo, in particolare, non invasivo ma stuzzicante e con lo strano potere di favorire la concentrazione, è perfetto per queste giornate di studio.

Kieran Hebden & Steve Reid: The Exchange Session, Vol. 1 (2006) 6,5/10
Kieran Hebden & Steve Reid: The Exchange Session, Vol. 2 (2006) 7/10

Infine, in una delle mie ormai consuete peregrinazioni attraverso wikipedia, mi sono informato sulle concelebrate e perclarissime (!) trifonie della mongolia orientale e ho scaricato una bella compilation, edita da World Network, in cui sono raccolti pezzi di numerosi artisti della repubblica russa di Tuva, che a quanto pare è la patria di gorgheggi, litanie e gargarismi di ogni tipo. Quel che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è che la maggior parte dei pezzi, oltre a essere assolutamente strabiliante sul piano tecnico-vocale - uno si domanda di continuo "e questo come diavolo fa a farlo?" - mi risulta pure gradevole nonostante l'orecchio poco allenato e la distanza culturale prima che geografica. Non sto a dare un voto, non saprei come valutare, ma ne consiglio senza dubbio l'ascolto, anche solo per restare ammutoliti di fronte alle incredibili potenzialità della voce umana.
Tuvinian Musicians: Chöömej - Throat Singing From The Center Of Asia (1999)

1 comment:

Anonymous said...

gran bel blog, passerò spesso!
kosmo