MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


26.4.06

Diecimila Giorni

Tool: 10000 Days [Volcano, 2006]
?/10
Difficile, anzi impossibile, dare un giudizio obiettivo di quello che per molti è l'album più atteso dell'anno, ma per me è di certo quello più atteso di tutta la vita. Mai, nei tre anni circa da che la musica è diventata la mia droga numero uno, ho aspettato con tanta impazienza e morbosa curiosità l'uscita di un disco. Nonostante tutti i miei buoni propositi, i tentativi di autoconvincimento a non attendersi troppo, pena una cocente delusione, non sono riuscito a non riporre in questo nuovo lavoro di una delle più grandi band di inizio millennio (*) una mole sovrumana di aspettative, speranze, previsioni e proiezioni. La fiducia, quasi totale certezza dell'ennesimo capolavoro conviveva in me con più pessimisti (e verosimili) presagi di sventura: impossibile eguagliare Lateralus, figuriamoci eguagliarlo, sarà già tanto se trovano ancora qualcosa da dire...
Mancano pochi giorni all'uscita ufficiale, ma da una settimana circa circola la presunta leak del disco a 192kbps, che da bravo fan (orgoglioso di esserlo nel senso più dispregiativo della parola fan) ho provveduto a scaricare, ascoltare e vivisezionare. Per carità, c'è qualcuno che vocifera non si tratti altro che dell'ennesimo fake, questa volta rilasciato dalla stessa band per confondere e spiazzare. Magari, dico io: ci ritroveremmo con due disconi clamorosi al posto di uno. Lasciando stare queste illazioni complottiste, direi proprio si possa azzardare qualche conclusione su quella che, con ogni probabilità è la musica del nuovo disco dei Tool.

Innanzitutto, grazie ai Quattro per non aver fatto il disco che desideravo, Lateralus II Plus, né quello che temevo, Lateralus Home Edition. Questo "10000 Days", essenzialmente", è un album totalmente diverso. Sparo lì qualche aggettivo, che magari commenterò meglio in seguito: è di certo più vario e "vivo", meno coeso, meno esoterico ma più cerebrale, senza dubbio molto duro - il disco più "heavy" che abbiano fatto. Lo si potrebbe definire un disco "maturo", con tutti i pro e i contro connessi all'attributo.
Una cosa alla volta, però. Le tanto annunciate influenze dei Meshuggah, su cui mi ero costruito dei film pazzeschi, sono ben in vista ma assolutamente assimilate nella musica: le sciabolate su metri impazziti di power chord a intervalli di ottava potranno venire da "Destroy, Erase, Improve", ma sembrano esser state inventate e partorite dalla mente di Adam Jones. Ecco (scusate se procedo in maniera disordinata), una cosa che si nota rispetto a Lateralus è che i Tool sono un mostro a quattro teste: il "Tool sound" è ancora lui, coi dovuti aggiornamenti, ma si sentono molto di più i contributi dei singoli componenti. In "Lateralus" non ce la facevo a separare la batteria dal basso e dalla chitarra: era un tutt'uno inscindibile. Qua è invece immediato accorgersi degli strumenti uno alla volta e apprezzarli separatamente. Come dicevo, l'album risulta meno coeso ma più "vivo", si sente che è la creatura di una band in carne ed ossa e non la perfezione calata dall'iperuranio (sì, sto parlando di Lateralus, ve l'ho detto che sono un fanatico).
Meno coeso anche perché la dimensione di concept, se c'è, è molto meno evidente, e il disco è molto meno uniforme nel sound e nella struttura dei pezzi: ognuno fa storia a sé, o quasi. Non che questo disco non abbia una propria anima, ma la ha più per contrasto coi lavori precedenti ("più questo", "meno quell'altro") che di suo. Forza o debolezza? Ancora non so dirlo, ma sospetto la soluzione sia un mix delle due. Una caratteristica che balza all'orecchio subito è la complessità metrica, tecnica e strutturale senza precedenti dei brani. Non solo i 4/4 sono l'eccezione e non la regola, ma il tempo continua a cambiare anche all'interno dello stesso pezzo, in un flusso che ai primi ascolti sembra forzato, ma poi si rivela per la sua sconcertante, geometrica, fluidità. "A questo non può che seguire quello" sembra essere la legge implicita che regola la struttura del disco a ogni suo livello. Dunque poliritmi, tempi deliranti ma rigorosissimi, riff più granitici che mai, matematici, precisi e devastanti, di quelli in grado di spaccare un diamante di netto. Meno poesia, meno aura mistica che in "Lateralus", in scena qui è la lucida costruzione di quattro menti pulsanti per cui gli strumenti sono esattamente quel che dice la parola: strumenti. Non solo la tecnica, ma anche la musica stessa come strumento di indagine, strategia per poter sondare, attaccare, sezionare, riplasmare se non la Verità almeno la nostra percezione di essa [non chiedetemi cosa significhi quel che sto scrivendo, perché non credo abbia un senso compiuto, però suona bene, va riconosciuto].

Ma veniamo ai pezzi. Perché si può fare un gran parlare del sound, ma un disco è poi fatto di canzoni, o se vogliamo di composizioni. I brani di "10000 Days" sono, almeno per come mi han preso, i più ostici e multisfaccettati che i Tool abbiano mai scritto. Possono colpire al primo ascolto per un aspetto e poi rivelarsi completamente diversi, o lasciare inizialmente poco impressionati per crescere man mano a ogni ascolto, o stupire di colpo manco fossero cambiati dall'ultima volta che li si è sentiti. "Vicarious" è giustamente il singolo, è il pezzo più immediato, che mostra già gli aspetti più evidenti del "nuovo corso" della band: si parte con un intreccio Tool-crimsoniano, di attesa, affiora un po' di elettronica, nuova e spiazzante aggiunta, ma non si fa tempo a storcere il naso che arriva l'esplosione, e entra il leviatano in 5/4, il riff più fragoroso del disco, monolitico ed efferato, di una durezza inaudita per il gruppo. Maynard James Keenan ci mette del suo, e altrettanto fa Justin Chancellor, che sembra aver appena scoperto i trentaduesimi, di cui costella il pezzo e l'album intero. Al terzo minuto i Nostri si voltano, guardano i Meshuggah e gli fanno quel salutino sullo stile "Ciao ciao, pivelli". Una canzone umiliante per qualsiasi apprendista musicante. Colpo da maestro e uno dei pezzi più d'impatto della carriera. Un po' senz'anima, ma ce lo vogliono far capire fin dall'inizio: questo non è Lateralus II (in ogni caso i bei pezzi di cantato emozionale ci sono, eh, inutile nasconderlo).
"Jambi" al primo ascolto mi era parsa addirittura banale. Giusto per dire come questo sia uno di quei dischi che si scoprono a poco a poco, in cui nessuna opinione è definitiva. Ora mi sembra un gran pezzo, frastagliato e proteiforme, con quell'assolo di "talking guitar" che nessuno si sarebbe aspettato ma è lì e ci si chiede come sarebbe stato senza. Un crescendo continuo che parte dall'intensità a cui di solito un crescendo arriva.
Seguono le due "Wings for Mary (Part 1)" e "10000 Days (Wings Part 2)", ed è qui che i Tool si allontanano maggiormente dallo stile a cui ci avevano abituato, arrivando a lambire le coste e sorvolare i territori degli Isis. Sorta di corrispettivo dell'accoppiata "Parabol"-"Parabola" (il raccordo ci assomiglia anche un po' troppo), questi sono i pezzi da novanta del disco. Il secondo in particolare, un'odissea di 11 minuti, è il pezzo più toccante del disco, in un modo del tutto diverso dall'esoterismo di "Schism", "The Grudge", "Lateralus" e "Parabola", meno orgiastico e più interiore, ricco di spazi e di vuoti. L'apice di questi "nuovi Tool", e forse una possibile indicazione per il futuro cammino della band. E, mentre la sto riascoltando, verso l'ottavo minuto arriva la lacrimuccia...
Anche "The Pot" nasce per spiazzare. Partenza a cappella su un registro molto più acuto di quello a cui siamo abituati. Subito incalza il basso, e non si direbbe mai a sentirlo, ma il suo riff sfuggente e spezzatissimo è in 4/4, pulito pulito. Ho rischiato la vita a un incrocio, nell'accorgermene (vale per questo disco lo stesso discorso che per i Battles: non ascoltare al volante o in bicicletta). Fortunatamente, verso la metà del pezzo, fa capolino un po' di quel Danny Carey "tribale" che era metà buona del sound ipnotico di "Lateralus", ma il risultato qui è tanto differente quanto entusiasmante.
Soprassiedo sugli interludi, non perché siano di troppo (un po' di respiro ci sta eccome), ma perché tutto sommato sono la cosa meno interessante. Dopo "Lipan Conjuring" e "Lost Keys (Blame Hofmann)" si arriva dunque alla canzone che forse più sarà ricordata del disco: "Rosetta Stoned". Ecco, allora, fermiamoci. L'inizio. L'inizio di questa canzone. La voce di Keenan filtrata e leggermente sfasata, a fare da tappeto al riffone... Porca eva ma quanto è bella? Fa paura, è sconvolgente, è inumana, disumana, sovrumana. Ok, il resto della canzone è bellissimo, è la più lucida e cerebrale del disco, con un finale di quelli da coinvolgimento totale, che ti metti a cantarli (!) a squarciagola nella stanza (e, dannati bastardi, mica te le lasciano assaporare le loro aperture melodiche, macché, "Paganini non ripete", i ritornelli manco sanno cosa siano, "usata" una volta una frase, si passa subito a un'altra), ma il 90% delle volte che tento di ascoltarla tutta lo faccio ripartire dopo pochi minuti: l'inizio cavolo, l'inizio è da brivido.
"Intension" è a metà tra lo strumentale e l'intermezzo, con quella batteria elettronica che era difficile aspettarsi. Infine "Right in Two", che apre quasi da ballad (in 11/8, non proprio il classico lento), giocando ai piccoli giornalisti da strapazzo la si potrebbe definire la "Stairway to Heaven" dei Tool. Il pezzo è bello, merita, probabilmente è il più vicino a "Lateralus", e proprio per questo è quello in cui la formula mostra un po' la corda. Insomma, sì, partenza arpeggiata, ritmi composti, esplosione a metà pezzo, un po' di tambureggiamenti tribali, riffoni di roccia fusa... si potrebbe dire "prevedibile". Vabbé, concediamoglielo. "Viginti Tres" è inutile. Ma c'è chi si diverte ad ascoltare dischi interi fatti così, e li trova avanguardistici e molto belli. Continui pure a divertirsi, io skippo.

...

Interessante. Io ero partito nello scrivere questo commento con l'intenzione di parlar male del disco. Oddio, proprio male no, ma insomma di non esaltarlo troppo, di riconoscere che non è altrettanto capolavoro quanto il precedente, di far trasparire che i Tool abbiano intrapreso il tratto discendente della loro parabola artistica. Eppure non sono stato capace. L'ho detto, quest'album cresce ad ogni ascolto, e forse non è perfetto come "Lateralus", senza dubbio è più freddo, a tratti perfino di maniera, la formula non è più così sbalorditiva e a scavar bene si può notare qualche segno di cedimento, qualche riff che suona di già sentito, qualche schema che ci si poteva aspettare... Ma bisogna proprio mettersi a cercare il pelo nell'uovo. Guardiamo alla realtà dei fatti: se questo fosse il primo disco della band, si potrebbero fare paragoni coi precedenti? Si potrebbe dire "ehehe, sono calati, lo dicevo io"? No. Si dovrebbe soltanto constatare la strabiliante maestria dietro a questo assalto sonico, e senza dubbio si urlerebbe "al capolavoro".

(*) Azzardo qualche altro nome? Godspeed You Black Emperor!, Radiohead, Isis, Sigur Ròs, Four Tet, Mastodon, Wilco.

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