MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


18.3.06

Ascolti della settimana (Dom. 12 - Sab. 18 Marzo 2006)

Uzza! Ma io ho un blog!

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No, la verità è che periodicamente me ne ricordavo, ma poi ritornare a scriverci era troppo sbatti. Non che avessi chissà che altro da fare, ma appunto per questo che volete che raccontassi?
[...]
Ok, è solo che sono pigro e scrivere cose con coerenza e costanza cozza con questa caratteristica.
Ma tant'è: siccome di roba sbatti ne scrivo comunque per altri motivi, ho pensato di riportarla anche qui.
E' dunque con somma gioia che informo la Gentile Clientela (che provvero' prontamente a resuscitare con costante e fastidiosa attività di spam a amici e conoscenti) che da oggi vi beccherete settimanalmente le mie "Playlist of the Week". Questo sempre nella speranza di incuriosire qualcuno e fargli ascoltare qualcosa di interessante.
Vabbé, bando alle ciance, levatevi pure dalle palle se la cosa non vi interessa.

[...]

Ehi? C'e' ancora qualcuno? Mi sa che son rimasto da solo. :)

della settimana:
Miles Davis: Bitches Brew [Columbia/Legacy 1969]
8,5/10 (R)
Ho questo disco da due anni, e da due anni non lo riascoltavo. Rimetterlo su due giorni fa e rimanerne completamente stregato mi ha fatto capire quanto sono cambiato in questi due anni.
Quei pezzi lunghissimi e dilatatissimi che mi sembravano mancare totalmente di una struttura o di un senso compiuto continuano a essere tali, con la sensibile differenza che adesso mi piacciono da matti. Questa musica è inafferrabile, ne sfugge la forma ma non la bellezza, è un mantra rituale avvolto in una coltre di fumi inebrianti. Un tappeto costante e proteiforme di piano elettrico, percussioni tribali ma lontane anni luce dai ritmi ossessivi a cui associamo solitamente l'aggettivo. Un sax baritono che gioca a fare il basso, a tessere un fondo vivo, figure di fumo che escono dallo strumento e si dissolvono lentamente scontrandosi con i guizzi della chitarra. E sopra a tutto, ma in costante dialogo con esso, lo strepitoso timbro di Miles, fuori da ogni schema musicale noto (ho provato a carpirgli qualche frase, e non segue una scala che sia una per più di tre note) ma assolutamente composto nella sua libertà. Contenuto ma non trattenuto, leggero, con queste frasi semplici e brevissime, lontanissime dalle scariche di note che caratterizzano lo stile di tanti jazzisti. Questo è solo il primo brano, ma su ognuno ci si potrebbe scrivere un romanzo. Non so cosa questo disco dovrebbe avere di jazz-rock: jazz elettrico ok, ma di rock non ci trovo nulla. Ma ha forse qualche importanza?

della settimana:
Dave Brubeck Quartet: Time Out [Columbia/Legacy, 1959]
9/10
Altro disco, altro pianeta, altro capolavoro. Ne avevo letto in lungo e in largo, e quando finalmente mi son deciso a comprarlo (in nice price) ho scoperto che questi brani li conoscevo da quando avevo si e no quattro o cinque anni. Mio padre aveva ed ha tuttora un disco di non ben precisata provenienza chiamato "Take Five", a nome del sassofonista Paul Desmond, e quante volte l'avrò sentito senza sapere cosa fosse!
Ma torniamo a noi. "Time Out" è un disco miliare non solo perché è, sembra banale dirlo, bellissimo, ma anche perché è - a detta del booklet, che vorrà tirare acqua al suo mulino ma proprio cazzate spero non ne spari - il primo album jazz a sperimentare con tempi composti estranei alla tradizione europea. Brubeck e soci sono reduci da una serie di viaggi in India e in Turchia, durante i quali suonano con musicisti locali e scoprono un intero mondo per cui il tempo "naturale" non è il 4/4, e decidono che è tempo che il jazz si accorga che il massimo dell'"esotismo" possibile non è il 3/4 da waltzer.
Nato dunque come disco di jazz sperimentale, senza la minima pretesa di successo di pubblico, pezzi come "Take Five" e "Blue Rondo à la Turk" (geniale "mischiotto" di struttore classiche, tempi e temi mediati dal folklore turco e progressioni blues) ne trainano le vendite stupefacenti anche e soprattutto per gli autori. E fino a qui è "solo" storia, la storia di un disco importante, ok, influente, e va bene anche questo, che ha venduto tanto... ma c'è dell'altro?
Ovviamente sì, ed è proprio l'"ovvia" bellezza di cui accennavo sopra. I pezzi giocano d'incastri con tempi insoliti, hanno qualcosa di inafferrabile, ma sono dannatamente orecchiabili. Nel senso buono della parola, ovviamente. Credo che tanto "progressive" nasca da qui, si sia sentito per benino questo disco prima di muovere i primi passi: tempi dispari e piedino che tiene il tempo. Ogni quanti battiti l'accento? Non c'è nemmeno bisogno di pensarci, viene da sé.

Altri ascolti:
King Crimson: The ConstruKction of Light [Discipline Global Mobile, 2000]
6/10
Era l'ultimo studio album dei Crimson che mi mancava, ma nella mia nuova e malatissima ottica del "un disco nuovo dei Crimson alla settimana fino a esaurimento scorte" la lacuna andava colmata. E' raro che il Re Cremisi sbagli una mossa, ma è difficile vedere in modo diverso questo "The ConstruKction of Light". Non che manchino le innovazioni, i consueti "passi avanti nel sound", e non si può neanche dire che il disco non abbia una sua personalità, solo mi pare sia un po' stanco, confuso e povero di idee. Ma andiamo per gradi.
"The ConstruKction of Light" è senz'altro il disco più cinico, schizofrenico, rumoroso e caotico dei Crimson. A ben vedere, è anche l'unico a cui possano davvero addirsi questi aggettivi. Bruford ha lasciato il gruppo e con lui se ne è andata ogni traccia del drumming jazzy e controllato dei dischi precedenti: il rimanente Pat Mastellotto sceglie per questo disco di passare esclusivamente alla batteria elettronica, trasformando la macchina ritmica dei Crimson in un carrarmato sonico ossessivo e nevrotico, non lontano dai territori di Idiot Flesh, Sleepytime Gorilla Museum, ma anche Napalm Death o Swans. L'interplay tra Fripp e Belew si fa più teso che in "Thrak", andando a rispolverare alcuni intrecci direttamente da "Discipline" ma rileggendoli in chiave schizoide e compulsiva: la title track ha qualcosa dei Don Caballero, ma chiusi in un manicomio e lì lasciati a marcire.
E allora cosa c'è che non va? C'è che a parte il sound caustico e graffiante i brani stentano a decollare, anzi non decollano proprio, chiusi nelle gabbie e nei cliché di trent'anni di storia del gruppo. Il disco è infarcito di un autocitazionismo esasperato, cosa che non sarebbe affatto negativa, non fosse che le riletture sono nettamente inferiori agli originali. "FraKctured" esce direttamente da "Starless and Bible Black" ma manca di groove, "Lark's Tongues in Aspic, Part 4" sostituisce la lucidità dei crescendo con la fredda efferatezza di chi ha finito le idee e si appiglia con le unghie e coi denti al suo stesso mito e al suo sound.
Non è un caso che gli unici pezzi davvero meritevoli, "Into the Frying Pan" (dove è Belew a fare la parte da leone) e "Heaven and Earth" (accreditata al ProjeKct X) siano quelli che più si distaccano dai temi compositivi di brani precedenti. Nel complesso un lavoro non malvagio, ma molto sotto al consueto standard e tutto sommato di nessuna utilità.

Candiria: 300 Percent Density [Century Media, 2001]
6,5/10
Noto che da un dieci anni a questa parte si sta sviluppando una tendenza a costruire musica sul virtuosismo batteristico. Partendo (manco a dirlo) dai King Crimson di "Thrak", passando per i Don Caballero, gli Hella o gli Ahleuchatistas, fino ai Meshuggah e ai Dillinger Escape Plan sempre di più la batteria diventa lo strumento che detta le regole e determina le composizioni. La chitarra, strumento solista per eccellenza del rock, svolge un ruolo meno tecnico, martellando con sciabolate dissonanti la struttura messa in piedi dalla batteria.
Anche i NewYorkesi Candiria si possono facilmente inquadrare in questa tendenza, in quanto, nei loro brani più riusciti, pedissequi cloni dei Meshuggah. I Candiria caricano la componente rap della voce, levano quei brandelli fulminanti di chitarra solista che caratterizzano la musica degli svedesi, e si muovono su un campo più diretto, meno freddo e lucido. Musica dal forte impatto aggressivo, dunque, purtroppo spesso solo giustapposta, e non davvero fusa, a stacchi jazzati o addirittura fiatistici. Alcuni pezzi tentano la strada del "cantato" hip-hop, ma i risultati non sono sempre dei migliori. Qualche brano è molto buono ("Contents Under Pressure", "Signs of Discontent"), l'album è godibile, ma nel complesso non lascia il segno.

Glider: One Day at a Time [The Gaia Project, 2006]
7,5/10 (R)
Siamo nei territori del post-rock "emotivo" di Godspeed You Black Emperor!, Explosions in the Sky, Sigur Ròs, 65 Days of Static. Il disco in questione non è particolarmente innovativo, ma è piuttosto originale nella sintesi e dannatamente emozionante. La chiave di volta del disco sta tutta nella fusione tra le emotività e le atmosfere post-rock e quelle shoegazer: arpeggi lenti, progressioni inesorabili, paesaggi nordici aperti, batteria che si fa man mano incalzante... e pile e pile di effetti sulla chitarra, riverberi, voci soffuse, smussate e lontane, sussurrate e dimesse. "The Processional" è plagiata di brutto da "Untitled 3" dei Sigur Ros, ma tracce come "Shortly After Two", "Over the Ocean", "Dreams Only Go So Far", "Borderline", "Can You See Them" vanno dritte al cuore, carezzandolo con una mano e pugnalandolo con l'altra. Un must-have per gli amanti del genere!

Icy Demons: Fight Back! [Cloud Recordings, 2004]
8/10
Questo non è uno di quei dischi che spaccano il mondo, e con ogni probabilità non sarà tra quelli che saranno ricordati tra dieci anni né tra quelli che verranno riscoperti tra venti. E' un disco apparentemente semplice, perché immediato, caldo e confortevole, che però rifugge ogni classificazione: basta fermarsi un attimo, concentrarsi sulla musica, per ritrovarsi senza termini di paragone, spaesati. Si potrebbe citare certo post-rock, certo indie-folk, ma l'atmosfera sembra venire da una Canterbury di trent'anni fa, con qualche spennellata anche della Germania del tempo. Tre sono i nomi che mi vengono in mente: Robert Wyatt, i Can e i Manitoba/Caribou. E in realtà la musica degli Icy Demons non ha molto a che vedere con nessuno di loro.
E' uno di quei dischi che sviluppa l'attenzione sui dettagli. Non solo della musica, ma anche e soprattutto delle proprie azioni. Ricordo una serie di "epifanie" avute montando una libreria Ikea ascoltando "Rounds" di Four Tet. Questo disco mi provoca una sensazione simile: luce che filtra in casa la mattina facendo brillare la polvere sospesa nell'aria, altrimenti invisibile. Oggetti e azioni quotidiane che d'un tratto acquistano un nuovo e inatteso significato. Questo disco ha il potere di mostrare la magia nascosta nelle cose. Non mi sembra un fatto da poco.

Tortoise: TNT [Thrill Jockey, 1998] 8/10 (R)
Van Morrison: Astral Weeks [Warner Bros, 1968] 9/10 (R)
Oi Va Voi: Laughter Through Tears [Outcaste, 2004] 7/10 (R)
Broken Social Scene: You Forgot It In People [Paperbag, 2002] 7,5/10
Kyuss: Blues for the Red Sun [Dali, 1992] 9,5/10 (R)
Arcade Fire: Funeral [Merge, 2004] 8/10 (R)
Motorpsycho: Timothy's Monster [Bird Cage, 1996] 7,5/10
Yndi Halda: Enjoy Eternal Bliss (EP) [Big Scary Monsters, 2005] 6/10

(R) indica i riascolti

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