MUSICA, VITA ED ALTRE AMENITÀ


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18.12.09

La non-recensione

Doveva essere la recensione, per Ondarock, dell'ultimo album dei Pelican. S'è poi deciso che è meglio di no, roba un po' troppo da blog. Quindi perfetta per qua, no?


Flames to dust
Lovers to friends
Why do all good things come to an end?

Nelly Furtado (o chi per lei)


Non so che fare, col nuovo album dei Pelican. Ore e ore a perdersi nei mondi di lava dei loro dischi; l'emozione, al concerto, di essere a un niente dal palco; e parole parole parole spese a cercare di trasmettere la passione, di mostrare nei loro riff montagne e vallate e corsi d'acqua e...
E poi metter su "What We All Come to Need" sapendo già quel che mi toccherà duramente ammettere: che questa musica non mi dice più niente.

Ascolto "Ephemeral" e scopro il senso di critiche che mi erano sempre parse assurde. Mi rivedo i nostalgici del post-rock, a lamentarsi del tradimento di Pelican e soci verso la dottrina emotiva di Mogwai ed Explosions in the Sky; ripenso ai rocker duri e puri che trovavano "The Fire in Our Throats Will Beckon the Thaw" flaccido e il batterista una scarpa.
E non ho il coraggio di riascoltare quei dischi per ri-sbugiardarli; è troppo forte il timore di dover riconoscere: "avevano ragione".

Tutto questo è molto poco professionale, e mi spiace per te che leggi. Avrai pensato di trovare in queste righe una recensione vera, bella o brutta che fosse, una cosa tipo "What We All Come to Need" prosegue sulla strada di "City of Echoes", ingentilendone gli intrecci, senza rinunciare al versante più hard eccetera eccetera. Invece non sono nemmeno in grado di stabilire se questo disco è un po' meglio o un po' peggio di quello prima: nemmeno me la sento di giurare che sia la stessa solfa (ma direi di sì, a parte "Final Breath" che ha - finalmente! - un po' di cantato).
Sono stato troppo tempo lontano da questi suoni, e ora che ci ritorno mi accorgo di non capirne più lingua.

Isso bandiera bianca: il voto sotto giudica me.


(il voto in questione era 5, su 10)


ps. Sui Pelican avevo pubblicato qualche anno fa un'altra recensione, di tutt'altro tono: http://www.ondarock.it/recensioni/2007_pelican.htm

19.2.08

1976. Maad: s/t

Scoraggiato dalla difficoltà di trovare sul p2p album italiani anche piuttosto celebrati, ho deciso di darmi anch'io alla pubblicazione di link rapidshare. Non so ancora se sia il caso di aprire un blog specifico: per intanto sfrutterò questo spazio, alternando i post "col regalo" a quelli usuali.

I post saranno così strutturati: breve commento e link a un album al momento non reperibile via blog, da me caricato da qualche parte, poi qualche suggerimento di download da altri blog.

Inizio con un disco poco noto, che ho fatto molta fatica a reperire. Si tratta dell'album omonimo dei Maad, quintetto italo-americano di stanza a Milano, dedito a quel genere di contaminazioni jazz/rock dal retrogusto "etnico" e psichedelico che erano tanto in voga nei primi anni Settanta.
Se lo stile imperante prevedeva però un'attitudine molto "svaccata" e free-form, velleità avanguardistiche di vario genere e un discreto assortimento di freak/misticaggini, i Maad si distinguono per un approccio più composto e vicino agli stilemi fusion (quando non third stream, bebop o ragtime). Alcuni brani sono poi intrisi dell'inconfondibile retrogusto beat che caratterizza tanta musica italiana di allora e che a seconda dei casi può essere un punto di forza o di debolezza. Per i Maad è senza dubbio valida la prima: l'ingenuità tipica del beat italiano si stempera in una consapevole leggerezza, che rende ancora più piacevoli le jam di classe del quintetto.

http://sharebee.com/fa38f2a6
Bitrate: 160 kb/s

Maad: s/t
LP Wergo Germany 1976

Tracklist:
1. African Norge
2. Bouzouki
3. Giugno ‘75
4. A Milano E Dura
5. Zabaz

Crediti:
- Attlio Zanchi / chitarra
- Renato Rivolta / sassofono
- Pino De Vita / tastiere
- Joe Castanuela / batteria
- Jonathan Scully / percussioni, vibrafono
- David Searcy / percussioni

Qualche altro consiglio:
Mauro Pelosi - Al mercato degli uomini piccoli, 1973 (cantautorato progressive)
Scisma - Armstrong, 1999 (post-rock, alt-rock)

23.11.07

Un po' di tempi dispari

Ascolto musica classica allo stesso modo in cui vado al cinema a vedere un qualche film d'essai: da completo turista. Consapevole di non sapere nulla di tutto quello che ci sarebbe "attorno", mi concentro sull'opera in sé e cerco di coglierne il poco che riesco, o molto più ingenuamente di vedere se mi piace.
Come difficilmente andrei a vedere un film sul calcio o partirei per un paese tropicale di mia spontanea volontà, allo stesso modo preferisco lasciare alle sporadiche puntate in teatro l'enorme mole della "musica classica" propriamente detta - quella ottocentesca - e dedicarmi senza alcuna pretesa alla lenta esplorazione del resto. Guidato sempre, più che da un criterio di "fondamentalità universalmente riconosciuta", da quelli che sono i miei interessi, le mie passioni, i miei gusti.

Questo per giustificare perché, senza aver mai sentito una nota di Webern o Berio, e avendone ascoltate pochissime di Schönberg e Stockhausen, ascolto dal sito della Santa Naxos il "Ballet Mécanique" di Georges Antheil e me ne innamoro.

Data: 1923/1925. Genere: futurismo, leggo. Influenze: sicuramente Stravinsky, ma direi anche molta Francia - Debussy, Ravel, Dukas, anche Satie forse.
"Ballet Mécanique", un nome che è un programma. Musica ipercinetica, caleidoscopica, coloratissima, eppure intrinsecamente meccanica. Intrinsecamente anche solo per la strumentazione: "4 pianos, 2 electric bells, 2 airplane propellers & percussion", insomma un bel dispiego di tintinnii, scatti, ticchettii, clangori. Sarebbe stato facile (anche se un pelo ante litteram) farne una qualche orribile precognizione di musique concrète, invece Antheil sceglie la strada della melodia festante, leggera, del connubio timbro-ritmo che trasforma la musica in una parata di girandole dai colori sgargianti.
Seguono, in questa edizione, anche una "Serenade for String Orchestra, No. 1", più convenzionale ma altrettanto briosa ed elegante, una "Symphony for Five Instruments" (tutti fiati - il che significa niente archi, ovvero "molto probabile che mi piaccia", e infatti è così) e il bellissimo "Concerto for Chamber Orchestra", posatamente esuberante nei suoi svolazzi e piroette.

Quello che amo di più in musica come questa è la totale assenza di enfasi, magniloquenza. E' musica umilmente frivola, tratto che la accomuna a certo barocco che amo altrettanto, e che la distingue nettamente dall'epicità romantica del secolo precedente. Emozione che nasce dalla forma e dalla fantasia, e non è suggerita, calcata, forzata da ogni singola nota di violino.

12.2.07

Ascolti

Dai, faccio la pleilista. Solo da inizio mese che se devo metterci anche tutta la roba dei mesi scorsi non finisco più. Ripesco giusto qualche disco per completare alcune "aree tematiche".

Emocore
La notizia è la seguente: a furia di sbeffeggiare gli emo di qua e di là, è finito per piacere pure a me. E in maniera decisamente preoccupante.
E' opportuno comunque, fare qualche distinguo. Il primo emocore, quello dei Rites of Spring e degli Embrace (ma questi non li ho sentiti), mi fa schifo pesantemente. Niente di nuovo sotto il sole d'altra parte, è hardcore con tutti i crismi dell'hardcore: batteria di latta tum-pa tum-pa, piglio punk, riff grezzi e quant'altro. Una singola canzone mi piace da matti: "All there is". Il resto lo trovo proprio irritante.
Specularmente, il recente "emo" del tutto privato del "core" tende a infastidirmi pure lui. Qui tracciare linee di confine è più difficile, ma in ogni caso i vari gruppi approdati su MTV o a un passo dal farlo non mi incuriosiscono (ho sentito solo i singoli su yotube), che siano i My Chemical Romance, i Dashboard Confessional, i Thursday (questi ultimi davvero terribili) o chi per loro. Ributtante anche il "metalcore", almeno a giudicare da youtube. Qui proprio non riesco nemmeno a cogliere l'elemento hardcore: mi pare death metal melodico di bassissima lega e mi fa schifo per gli stessi motivi per cui non amo gran parte del metal.
Cosa resta? In primis, rimangono i mai troppo celebrati At the Drive In e gli stuoli di imitatori più o meno "progressivi". Imitatori che vanno passati attentamente al setaccio, ai partire dagli stessi Mars Volta, autori di un primo album eccezionale e di due dischi inconcludenti, sbrodolato fino allo spasmo l'uno e privo di mordente l'altro. Spacciati come emo-prog si trovano pure i Coheed and Cambria, in realtà dediti a una sorta di pomp-rock che più che dal progressive e dagli ATDI sembra prendere (e male) da Led Zeppelin e Dream Theater. Facendosi strada un po' a fatica di gruppi interessanti comunque se ne trovano: sotto ne cito un paio.
Last but not least, il fatidico (per me) screamo: dopo aver adorato Saetia, Hot Cross, Off Minor, City of Caterpillar e Circle Takes the Square, mi sono ributtato in questa corrente estrema e post-rockeggiante, questa volta alla scoperta di alcuni dei progenitori. Con alcune scoperte decisamente sorprendenti.

Sunny Day Real Estate: Diary (1994) 8
Sunny Day Real Estate: How it feels to be something on (1998) 7,5
Il primo disco dei Sunny Day Real Estate è una delle cose più oneste e sentite che abbia mai ascoltato. Non vuol dire che sia un disco rozzo o fatto senza testa: la voce è molto studiata, anche un po' falsa e distante nel suo voler ricercare il più possibile il connubio tra impeto, introversione e melodia. Fatto sta che al ritornello dell'iniziale "Seven" mi è del tutto impossibile resistere, e da lì il disco mi trascina nel suo turbine emotivo, inanellando nel frattempo giri di basso e arpeggi che scavano un segno profondo.
A quattro anni di distanza esce il terzo album: non so cosa sia accaduto nel frattempo, ma di certo di acqua sotto i ponti ne è passata. Via tutta la ruvidezza e la splendida ingenuità dell'esordio, via ogni irruenza "core" e dentro complesse architetture progressìve à la "Ok Computer". Qua il gioco è tutto sui chiaroscuri, sulla tensione che cresce a poco a poco e viene sprigionata mantenendo ben saldo il controllo sul freno. Il distacco della voce qua è ancora più netto, e gli si aggiunge l'eleganza pianificata delle parti strumentali, e se il primo impatto è meno diretto nel giro di pochi ascolti il disco si rivela denso, coinvolgente e ricchissimo di sfumature.

The Get Up Kids: Four Minute Mile (1997) 7

The Sound of Animals Fighting: Tiger and the Duke (2005) 7,5
The Sound of Animals Fighting: Lover, the Lord has left us... (2006) 7
"Supergruppo" formato da componenti di svariate emo-band di bassa lega, i Sound of Animals Fighting sono tutto meno che la somma delle loro parti. Il primo disco suona come avrebbe dovuto suonare un degno seguito di "De-Loused in the Comatorium", con un bel po' di frenesia post-hardcore a rimpiazzare le porcherie latineggianti e le infatuazioni zeppeliniane degli ultimi Mars Volta. La carne al fuoco è tantissima, forse troppa: per intanto l'impressione è ottima, col tempo vedrò di capire se tutti gli elementi in gioco sono davvero necessari. Esaltante, comunque, il disco lo è di certo.
Il secondo disco è difficilmente paragonabile a qualcosa di già sentito. Saranno le maschere da animale che indossano i concerti, ma si direbbe proprio che i Sound of Animals Fighting abbiano deciso di trasformarsi nei Residents del post-hardcore. O nei Massive Attack, nei Kukl, nei This Heat o va' a saper che altro. Si può dire che le carte in tavola cambiano tutte, tranne le due componenti principali: caos e melodia. In un labirinto di campionamenti, vocalizzi arabeggianti, convulsioni elettroniche e ronzii chitarristici, i pezzi perdono qualsiasi forma di linearità e si trasformano in luoghi sonori, pozze da cui affiorano ora una melodia lontana, ora un violino folk, ora i gorgheggi di una radiotrasmittente in avaria. Che dire... un guazzabuglio come non ne sentivo da tempo. Già questo, e l'innegabile piacevolezza dell'insieme, basta a mantenere il loop su quest'album.

Coheed and Cambria: The Second Stage Turbine Blade (2002) 5
E son stato buono giusto perché, alla fin fine, sono riuscito ad arrivare alla fine. Scaruffi da' a questa ciofeca più di "Relationship of Command". E' un peccato che là in california i roghi non siano più di moda.

Still Life: From Angry Heads with Skyward Eyes (1993) 7
Disco anche bello, un po' troppo lagnosa la voce, sì, ma il vero problema è che la qualità del suono è infima. Gli strumenti son tutti mischiati in una fanghiglia piena di boati e rimbombi. No, non è una cosa molto avant, assicuro. Poi i pezzi ci sono eh, e il sound pure fatte salve registrazione e missaggio: cantato lamentoso e funereo, chitarra bassa, lenta e pesante, drumming monolitico e basso sparato sugli acuti. Si direbbe proprio di essere in presenza dei Joy Division dell'emocore, ma certi arpeggi e le dinamiche fanno pensare più che altro ai Mogwai. Certo, poi un pezzo solare e malinconico come "Sunrise Sunset" ha un effetto del tutto spiazzante, come uno sprazzo di sole che allontana per un attimo le nuvole. Se solo fosse registrato decentemente...

Indian Summer: Science 1994 (compilation, 1994) 8,5
Ok, adesso non ci sono più scuse e mezzi termini: questa raccolta è un capolavoro fatto e finito, la musica contenuta è fondamentale per il rock successivo, la scarsa notorietà di questa band ha qualcosa di criminale. Non credo che molti siano in grado di immaginare un incrocio tra Slint e At the Drive-In: ecco, non fatelo, scaricate il disco e sentite.
"I Think Your Train is Leaving" si apre col gracchiare di un vecchio vinile di blues femminile, espediente che fa da legante tra tutte le canzoni e conferisce alla raccolta un fascino "in bianco e nero" e un distinto senso di coesione. Subito attaccano le chitarre e sembra di trovarsi al cospetto del fratello gemello di "Spiderland": riff sbilenchi, svuotati, accelerazioni e pause improvvise. E dopo una tesissima sequenza di stop'n'go ecco la prima "esplosione" del disco e forse il primo accenno di post rock "emotivo" assieme a qualche arpeggio qua e là dei Bark Psychosis. Ben più di qualche accenno si trova invece nella strepitosa "Angry Son", che per inciso deve esser piaciuta tanto agli At The Drive-In, visto che "198d" è praticamente la copia a carta carbone. Qua le dinamiche, le atmosfere e il suono sono tali e quali a quelle che saranno dei Mogwai. E sebbene l'ipotesi appaia remota, non escluderei che anche la via dei Godspeed You Black Emperor! sia passata di qua, essendo i canadesi stati a lungo interessati alla scena hardcore. Di certo in ogni caso c'è che i Saetia sarebbero stati impensabili senza questo gruppo, e assieme a loro tutto quanto di buono abbia prodotto lo "screamo" che ne sarebbe derivato. Imprescindibile.

Native Nod: Today Puberty, Tomorrow the World (compilation, 1996) 7,5
I Native Nod sono un po' la versione "indie" dell'emocore. O forse il gruppo che più si avicina al post-hardcore tout court. Vortici dissonanti alla Sonic Youth, chitarre ritorte, ritmi spigliati ma "incastrati", un po' alla Quicksand volendo, e c'è pure qualcosa dei Neurosis. Più che qualcosa. S', è brutto mettersi a fare il giochino dei paragoni, ma il suono di questa band si presta bene a questo genere di "caccia al tesoro". Quello che va specificato è che a dispetto dei mille rimandi, si tratta di un sound assolutamente coeso e personale, e i pezzi sono ottimi, alcuni davvero eccezionali, col sax di "Mr. President" a dare l'ennesima nota di colore a una raccolta davvero meritevole.

Blink-182: Enema of the State (1999) 8
Non guardatemi così, che questo disco lo odio da quando è uscito. Questi cavolo di singoli erano ovunque e al tempo se una cosa piaceva a tutti a me doveva fare ribrezzo. Non sono cambiato di molto, e ora che tutti sputano nel piatto in cui hanno mangiato io mi scopro ad amare non solo "Adam's Song" (che, si può dire quel che si vuole, ma è un gran pezzo) ma ogni singola traccia di un album che non ha tracce deboli. Avendo accettato come "forti" i singoli, ovviamente - certo che se non convince "All the Small Things" probabilmente tutto il disco suonerà come la stessa merda. "Zen Arcade" è, secondo la pietra miliare, il disco definitivo sull'adolescenza. Non sulla mia, e a dire il vero neppure "Enema of the State" lo è, ma ci sento molto di più le sensazioni dell'adolescente. Il solito disco da teenager? Sì, e che me ne frega. Il solito disco di finto hardcore? Sì, e a me l'hardcore "vero" fa cagare. Mentre "Enema of the State" mi piace da matti.

Altre prelibatezze:

A Minor Forest: Flemish Altruism (1993-1996) (1996) 7,5
Colossamite: Economy of Motion (1998) 7
Ruins: Stonehenge (1989) 8
Happy Family: omonimo (1995) 7

Tipographica: God Says I Can't Dance (1996) 7,5
I giapponesi hanno qualcosa di strano nella testa e questo si sa. In ogni caso questo disco (ma anche i due citati subito sopra) ne è l'ulteriore riprova. Disco ritmicamente imbordellatissimo, pieno di melodie anche molto dirette ma frastagliate a dismisura, continuamente spezzate da beat sbilenchi, spigoli e incastri di varia natura. Disco molto piacevole, solo per progressivomani però, perché il sound non ha paura di risultare incoeso o di fare affidamento sui vari hammond e synth, anche se un certo atteggiamento zappiano è forse uno degli elementi più evidenti del disco. Credo che col tempo crescerà, è uno di quegli album che han bisogno di parecchi ascolti per essere assimilati.

Island: Pictures (1977) 7,5
L'album più estremo del progressive melodico viene dalla svizzera e si presenta con un'evocativa copertina del connazionale Hans Ruedi Giger. Disco freddissimo, praticamente senza anima, "Pictures" porta la passione del genere per gli incastri e i tempi dispari alle estreme conseguenze, avvicinandosi più a tanto avant-prog che al progressive da cui prende le mosse: Genesis, VDGG, ELP e soprattutto Gentle Giant, anche se credo che un'ascoltatina al primo disco degli Henry Cow se la siano data per forza. I brani, la cui parte vocale è purtroppo poco incisiva in genere, sono quanto di più ritmicamente imbordellato si possa concepire cercando di conservare il melodismo e la "sinfonicità" dell'insieme. Niente chitarra, vari fiati e parecchio hammond per un lavoro fatto essenzialmente di cervello e atmosfere, che arriva in più episodi ad anticipare alcune architetture e frasi ricorrenti tipiche del math e può collocarsi assieme a "Lark's Tongues in Aspic" tra i precursori occulti del genere.

Circus: Movin' On (1977) 8,5
Ancora progressive svizzero, ma dallo stile completamente diverso dal precedente. Questa volta si tratta di un capolavoro bello e buono, una delle vette del genere senza il minimo dubbio. Un disco davvero solare, senza ombre di sorta, con le sue schitarrate acustiche a reggere l'andatura jazzata dei pezzi. I cinque accordi dell'iniziale "The Bandsman" già si piazzano tra i giri memorabili del rock. Il cantato si rifà spudoratamente a Peter Hammill ma è incredibile come il suo stile tenebroso e spirituale venga stravolto in chiave spensierata senza minimamente perdere di efficacia. L'organico strumentale è ricco e si appoggia spesso sui fiati per ricami delicati e perfettamente a fuoco, mai invasivi e di gran gusto. La title-track è una suite di 22 minuti che passano in un battibaleno. Chiunque non disdegni il progressive dovrebbe sentire questo disco.

Rush: Hemispheres
(1978) 7,5
Take That: Beautiful World (2006) 5,5
Iannis Xenakis: La Legende d'Eer (1995) 6,5

Bola Sete: Live at the Montrey Jazz Festival (1966) 8
Ok, questo disco è stupendo, che altro devo sentire?

Blowzabella: A Richer Dust (1988) 7,5
Ai Blowzabella manca (mancava) pochissimo per realizzare il capolavoro definitivo del folk celtico. Il loro sound è travolgente, e si basa sui muri di suono creati dalle due ghironde, dai due sax, dalle cornamuse e dal basso elettrico. La suite che occupa la prima facciata è qualcosa di emotivamente intensissimo, strutturalmente non così lontano dal soft/loud di marca Godspeed You Black Emperor!, anche se si tratta di musica tradizionale suonata come tale, senza nessun intellettualismo e senza nessun occhio rivolto al mondo rock. La seconda facciata contiene brani cantati, ma non tutti gli episodi sono ugualmente validi. In ogni caso si tratta di un ottimo disco da parte di una band eccezionale e sorprendente.

16.12.06

Ascolti (25 Novembre-15 Dicembre)

Due settimane e rotti di ascolti e riascolti:

Explosions in the Sky: Those Who Tell the Truth Shall Die, Those Who Tell the Truth Shall Live Forever (2001) 7,5 (R)
Un gran bel disco, che mostra tutto il debito della band verso i Mogwai ma e' gia' intriso dello stile inedito che esplodera' nell'album successivo (e sara' ripreso all'interno del genere praticamente da ogni altra formazione a venire). Il soft/loud fisico e lineare dei Mogwai, plastico e ondeggiante ma ancora ancorato a terra, si fonde con la spazialita' dei Godspeed You Black Emperor!, trasformandosi in descrizione di paesaggi e mutamenti climatici. Poi si alleggerisce, abbandona i presagi apocalittici e si arricchisce parallelamente di atmosfere e giri di basso che vengono dritte dai Cure. Non il loro capolavoro, ma ugualmente un disco fondamentale.

Explosions in the Sky: The Earth Is Not a Cold Dead Place (2003) 10 (R)
Non c'e' niente da fare, questo è uno dei dischi più importanti della mia vita, e "First Breath after Coma" uno dei pezzi che piu' mi emozionano in assoluto. Le architetture leggerissime degli Explosions in the Sky si librano nell'aria, attraversando tempeste ed arrivando alla vista meravigliosa del sole sopra alle nuvole. Le due chitarre tessono linee cristalline e melodicamente sensazionali, con pero' qualcosa di imprendibile, perche' se segui una chitarra c'e' sempre l'altra sotto che fa qualcosa che non ti aspetti. Capolavoro assoluto, del genere e del rock tutto.

Red Sparowes: Every Red Heart Shines Toward the Red Sun (2006) 5,5 (R)
Delusione. Il disco dell'anno scorso era un condensato di due generi e di temi eccezionali, questo e' moscio e le melodie mi sembrano fotocopie sbiadite di quelle dell'album prima. Resta il suono (un po' piu' cupo e inasprito) ma senza pezzi e' difficile farsi coinvolgere.
Russian Circles: Enter (2006) 7,5 (R)
Non se l'e' filato praticamente nessuno in Italia, ma non mi stanco di raccomandarlo. Il connubio definitivo tra post-rock emotivo, post-sludge e math, con pezzi forsennati, ricami e incastri assieme diretti e raffinati e un melodismo sempre in primo piano. Vediamo se con un video convinco qualcuno: Death Rides a Horse (Live) Occhiolino
This Will Destroy You: Young Mountain (2006) 7 (R)
Promettenti questi texani, che sposano lo stile classico del post-rock emotivo con un pizzico di indietronica e un fondo di synth ambientali, in maniera poco invasiva ma arricchendo di molto la trama della loro musica. Pezzi molto buoni con ottimi temi, da tener d'occhio.
God Is An Astronaut: A Moment of Stillness [EP] (2006) 6 (R)
La delusione si riconferma a distanza di mesi, anche se qualche pezzo buono c'e'. Rispetto alla tempesta emozionale di "All Is Violent All Is Bright" pero' non c'e' davvero paragone...
Caspian: You are the Conductor [EP] (2005) 7,5 (R)
Comprato online qualche mese fa in piena sbornia post-rockettara, non mi pento affatto dell'acquisto. Se di plagio degli EITS si tratta, e' comunque un plagio validissimo, con quel pizzico di groove in piu' che certo non guasta.
Port-Royal: Flares (2005) 8 (R)
Cosi', su due piedi, direi che sono il migliore gruppo post d'Italia al momento. Anche perche' a parte i Larsen conosco solo loro. Suoni celestiali. Che si sbrighino a finire il nuovo album perché lo desidero ardentemente.

Bark Psychosis: Hex (1994) 8,5 (R)
Ci ho messo anni per entrare in questo disco, ma ormai e' uno dei miei punti fermi. Peraltro, le prime note del post-rock emotivo sono li', nella chitarra al terzo minuto di "A Street Scene".
A Hack and a Hacksaw: Darkness at Noon (2005) 7
Bello. Klezmer, aksak, $altre_parole_est_europee. Divertente e diretto, anzi irresistibile, ma anche raffinato e ben studiato. Con quel tocco di salsine post che rendono il tutto piu' appetitoso. Con Beirut a mio avviso non c'e' proprio storia, ma quest'ultimo devo sentirlo ancora, poi potro' sparare a zero (o ricredermi) con maggior cognizione di causa.
Clogs: Lantern (2006) 7,5 (R)
Il disco più delicato dell'anno. Niente intimismo da voce-spezzata/due-accordi-e-via, ma neanche tutti i sovrarrangiamenti e i virtuosismi che pure vedo riscuotono tanti consensi. Semplicemente molta classe, un equilibrio invidiabile e dei gran bei pezzi. Bravi, a quando il bis? Vabbe', faro' meglio ad andarmi a ripescare i lavori precedenti.

Jesu: Silver [EP] (2006) 7,5 (R)
Ué, a me piace più dell'album dell'anno scorso. Suoni piu' ricchi e melodie a tutto spiano. E' un disco "pop", ma non lo chiamo certo un male.
Amesoeurs: Ruines Humaines (2006) 7
Figo e' figo, ma datemi al piu' presto un disco vero, che mica posso ascoltare in loop sempre gli stessi sedici minuti.
Type 0 Negative: Slow, Deep and Hard (1991) 7,5
Primo ascolto. Deve ancora pigliarmi del tutto, e non so bene se sapra' farlo. Me lo aspettavo piu' violento, invece mi sembra soprattutto molto tamarro (non che sia un male).

Shellac: At Action Park (1994) 10 (R)
Mazzate e incastri sferraglianti. Ira congelata in un disco fisicissimo ma totalmente asettico. Roba da serial killer della categoria ti-squarto-con-la-sega-elettrica-ma-stando-attento-che-le-parti-abbiano-lo-stesso-volume.
Shellac: 10'000 Hurts (2000) 6,5
Pero' qualcuno mi deve spiegare come da quello sopra si passa a questo. Mica brutto eh, ma che gli hanno fatto ad Albini? Ogni tanto rispunta fuori, ma per il resto e' di un moscio...
Iceburn: Ephaestus (1993) 7
Ma Quicksand, Helmet e sti qua fanno parte di una stessa scena? E i Tool c'entrano qualcosa? Il disco comunque sarebbe bellissimo, ma e' prodotto e mixato col buco del. Peccato, se i suoni si distinguessero meglio sarebbe un capolavorazzo.
Muddy World: Finery of the Storm (2006) 8 (R)
Gia' ho scritto relativamente alla Top 10 annuale: la perfezione in ambito math-rock. Finalmente i mille cloni dei Don Caballero dovranno inventarsi qualcos'altro, perche' meglio di cosi' non credo proprio si possa fare.

Liars: Drum's Not Dead (2006) 7
Monocorde al massimo. Per un disco cosi' ci sta a meraviglia, questo va detto. Da risentire, per ora pero' non mi ha sconcertato pur avendo dei gran bei suoni e delle ottime atmosfere. I pezzi mi dicono poco.
Å: omonimo (2006) 7,5
Bello, 'nuff said. Anche qua i pezzi ci metteranno un po' per entrarmi, ma e' un ascolto assai intrigante, con alcune apici da esaltazione pura.
Calomito: Inaudito (2005) 7,5
Italiani anche loro, fanno roba grossomodo avant-prog. Dalle parti di Muffins, Volapuk, Anatrofobia. Pezzi molto vari, classe da vendere e soprattutto tanta voglia di divertirsi suonando, che sprizza da ogni nota della loro musica. Pregevoli inserti klezmer e cambi di tempo per tutti.
Caboto: Hidden or Just Gone (2006) 7,5 (R)
Uno dei dischi che piu' ho apprezzato quest'anno. Rosso fuoco, ma con dentro tanta testa. Tra King Crimson e Tortoise c'e' una galassia in mezzo, e li' se la sguazzano i Caboto.

Bon, direi che ho commentato abbastanza. Il resto:

ancora prog-folk:
Sandy Danny & The Strawbs: All Our Own Work (1973) 7,5
Tudor Lodge: omonimo (1971) 5,5
Fotheringay: omonimo (1970) 6,5
Midwinter: The Waters of Sweet Sorrow (1973) 7
Stone Angel: omonimo (1974) 7,5 Questa e' una delle perle del genere, da recuperare assolutamente. Il voto e' sbassato dal cattivo missaggio.
Magna Carta: Seasons (1970) 7 (R)
History of the UK Underground Folk-Rock (1968-1978), Volume One (1998) 7
History of the UK Underground Folk-Rock (1968-1978), Volume Two (1998) 7,5
Waiting for the Sun: omonimo (1978) 4,5
Malicorne: omonimo (1975) 7

Mew: And the Glass-Handed Kites (2005) 7,5 (R)
Kate Bush: Hounds of Love (1985) 7 (R)
Thom Yorke: Spitting Feathers [EP] (2006) 7
Orange Juice: the Glasgow School [Compilation] 7,5 (R)